
Tra casa mia e il mare c’è la vecchia provinciale e il binario della ferrovia. Avrei potuto passare tutte le vacanze tra acqua e sole, ma il mare lo odio. Forse, quand’ero proprio piccola, mi piaceva nuotare e fare i castelli di sabbia. Poi, non più. Forse, ho cominciato a odiarlo alle medie, quando m’ero innamorata di Francesco e, lui, le guardava tutte le mie compagne, ma me no. Perché sono grassa, porto gli occhiali e ho i capelli che, per quanto li lavi ogni giorno, sembrano sempre scolare olio. Da allora non mi sono mai messa un costume e non ho mai preso il sole. La gente sulla spiaggia mi fa senso, tutta quella carne tremula esposta come quarti di bue in macelleria.
Ogni anno chiedevo a mia madre di mandarmi in vacanza in montagna e lei diceva che sì, ma solo con il gruppo della parrocchia, a Gambarie. E, a me, neppure il gruppo della parrocchia andava bene – la montagna che volevo era almeno in Trentino – e così me ne restavo luglio e agosto chiusa a casa e tornavo a scuola bianca bianca. Ma mi dipingevo le palpebre di nero pece – le occhiaie le ho sempre avute – e nere anche le unghie e pure la camicia. Tutti mi guardavano strano e non avevo amici.
Al primo superiore, un amico lo trovai. Alberto era alto, snello e sempre abbronzato, ma non gliene importava che io ero corta, tonda e pallida. Legammo assai. Prima, appena potevo, la scuola la marinavo. Ora ci andavo con piacere, per vederci. Oppure, la marinavamo insieme. La prima cocaina la sniffammo insieme e ci sentimmo davvero grandi.
È per la cocaina – i soldi non ci bastavano più e cominciammo a fare piccole rapine, ma lontano da casa – che siamo finiti in carcere. Lui è rimasto in Calabria. A me, m’hanno portato a Nisida. Ci sono arrivata di notte, ero stanca e stordita e a cosa c’era intorno non ho badato.
C’è voluto tempo perché mi accorgessi che stiamo in mezzo al mare. Dalle stanze delle ragazze, il mare non si vede, dalla scuola e dai laboratori – ma anche da alcune stanze dei ragazzi – sì. Io non ci badavo, come non badavo a niente.
In carcere, ti devi mettere una maschera. Fingi di stare in un sogno da cui ti sveglierai presto. Anzi, ti sveglierai prima se dici sempre di sì alle agenti, fai quello che ti dicono a scuola e nei laboratori e non combini guai con le tue compagne. All’inizio sono stata fortunata perché c’erano solo quattro ragazze, due dovevano uscire presto, una aveva un processo a breve e la quarta una condanna lunga e ci aveva fatto il callo: nessuna, insomma, voleva guai e tutto scorreva tranquillo. Poi sono arrivate alcune straniere. E io mi sono dovuta tenere in camera Mirela e Almunda. Mirela è rom, è stata qui altre volte, è pulita e tranquilla. Forse, più che tranquilla, rassegnata: deve rubare ancora, ha parecchie migliaia di euro da restituire alla suocera per pareggiare quello che è costato al marito comprarla da suo padre. Almunda viene da un paese del Centro America. Lei, la droga la spacciava, in quantità e della droga sa tutto, una vera maestra. Quando non parla di droga, Almunda parla di mare.
La sua libertà, la sua consolazione – dice – era il mare. E, adesso, lo cerca con lo sguardo, dovunque sia possibile. A scuola si siede vicino a una finestra e gira spesso il collo verso sinistra: da lì si vede il Vesuvio e, sotto, una distesa d’acqua azzurra; qualche volta c’è una nave o una barca.
Se fosse un’altra, farei un’alzata di spalle, ma lei è diventata tutto quello che non ho mai avuto: la madre, la sorella, l’amica dei sogni che mai ho avuto il coraggio di sognare e così la sto a sentire e, se sono di buonumore, (cosa che mi capita raramente), sorrido pure.
Almunda
Non pensavo che sarei finita in carcere, in fondo me l’ero cavata tante volte, prima. Comunque, nella sfortuna di finire dentro, ho avuto la fortuna di incontrare Serena. Io sono sprucida di carattere, mi arrabbio facile e divento aggressiva, non sono in tanti a sopportarmi. Ho dentro un’inquietudine che mi brucia, devo stare sempre in movimento, figurarsi la tortura dei ritmi lenti del carcere.
Quand’ero libera, solo il mare mi quietava. Soprattutto se era il mare ad essere arrabbiato. Mi piace il mare in tempesta che, a nuotare, ti sembra di dover fare guerra alle onde. I cavalloni alti, con la schiuma che si rifrange rumorosa sulla riva parevano risucchiare il selvaggio che è in me e mi lasciavano calma e tranquilla, almeno per un po’.
Quando ho visto Serena, ho sentito tutte le correnti che le si agitano, violente, nel petto e ho pensato al mare: nel nero pesto dell’ingresso in carcere mi si è aperta una piccola fessura di luce.
Siamo diventate amiche, di più: sorelle.
Il mese scorso, ha fatto una cosa per me, che è come un patto di sangue.
È uscita per la prima volta dal carcere. Due ore di permesso premio per una visita dell’isola. Con altri quattro ragazzi, le hanno fatto attraversare tutto il Parco letterario fino a porto Paone. Lì ha trovato una conchiglia – diciamo meglio: un guscio, grandicello, di lumaca – e l’ha riempito d’acqua di mare.
Come ha fatto a portarlo da lì a qui senza far cadere tutta l’acqua, non lo so. So che, dopo un tempo infinito, ho potuto bagnarmi le dita con qualche goccia d’acqua salata. M’è sembrato di nuotare, con cuore calmo, nel mare in tempesta. M’è scesa una lacrima in bocca e, anch’essa, sapeva di mare.