Appena uscita dalla stazione, Napoli, belva estroversa, ti salta tra le braccia. Prima le voci dei napoletani, poi il rumore del traffico, poi i colori, poi i panni stesi senza pudore ovunque, poi i vicoli, i bassi, le chiese, i gatti, i palazzi, il cibo, gli odori del cibo cucinato che si presentano dalle finestre delle case, dalle porte aperte dei locali sulle strade, come se venissimo tutti da una storia di fame insaziabile, e poi i colori, le scalinate, la gente, la gente, la gente, ovunque la gente che fa di Napoli uno spazio scenico perpetuo.
Napoli la senti addosso. Napoli ti tocca, ti chiede di non essere schizzinosa, di lasciarti andare al flusso di incoscienza che la attraversa in ogni angolo. Napoli è la vita e la malinconia sempre presente di chi gioca a scacchi con la morte, Napoli è cultura e ignoranza, sono i ragazzi in motorino in tre, a volte in quattro, senza casco, è l’amato rione Sanità, i Teatri in una città che è lei stessa teatro perpetuo in cui specchiarsi davanti alle sue rappresentazioni estreme.
Napoli dalla violenza sotterranea e dalla generosità delle anime piene di divinità. Napoli è ciò che spesso noi non sappiamo osare. Non cammini a Napoli, ma danzi, in un movimento ondulatorio e sussultorio che serpeggia sotto le sue strade, mentre inali lo zolfo del vulcano e ti arriva il ricordo antico del mare che non vedi, se non nella follia di chi il mare lo tiene dentro.
Napoli è l’incantesimo del Sud, con le croci, le processioni, i riti pagani e una gioia di vivere irrazionale, assurda, tragicomica, in cui il Godot tanto atteso, a volte, miracolosamente arriva, come un scudetto, che non sfama, non risolve il quotidiano, non toglie dalle strade la criminalità, non paga le bollette, ma è una concessione di tregua, è il gioco bello dello vita, è un alzare le braccia verso il cielo e gridare: “Ce l’abbiamo fatta, questa volta a vincere siamo stati noi!”.