LA PAROLA e LA STORIA. Canna

LA PAROLA e LA STORIA. Canna

canne   di GIUSEPPE TRIPODI

- Canna, deriva, come il corrispondente italiano, da voci omofone della lingua latina e di quella greca che però “sono sotto l’influsso di accadico – sumero kannu, kan: recipiente …” (Semerano, sub voce). Il significato delle lingue mesopotamiche rimanda dunque all’uso più comune della pianta che, in ogni tempo e a causa della leggerezza, è stata materia prima per contenitori.

Cresceva in presenza di acqua abbondante e, nei terreni seccani, era l’indizio fondamentale della presenza idrica per chi voleva fare un pozzo. Le coltivazioni più importanti erano lungo i corsi d’acqua ed erano soggetti al loro capriccio: Oh Madonna d’u Livitu / non mi cala la chiumara / chi si leva lu cannitu / e non facimu cchiù panara! ( Oh Madonna di Oliveto / che non faccia il pieno la fiumara / altrimenti porta via il canneto / e non si fanno più panieri).

Tra i contenitori di canna andavano annoverate soprattutto le còfane o còfini, dal latino cophinus-i, corbello, ceste a tronco di cono dotate di doppio manico nella parte alta che potevano essere fatte anche con l’agnocasto (làganu): appese ai due lati del basto servivano per il trasporto di frutta, di acqua negli orciuoli (bùmbule), di sabbia ed di altre cose.

C’era anche la còfana per il bucato che, a differenza delle altre, era di forma piatta e alta non più di quaranta centimetri. Vi si disponeva la biancheria già lavata, insaponata e sciacquata e poi la si copriva con una pezza bianca su cui veniva disposta la cenere; indi vi si versava sopra l’acqua bollente che penetrava sugli strati di biancheria disinfettandoli e profumandoli meglio di qualsiasi detersivo.

La fattura delle còfane era più complessa di quella dei panieri e il proverbio rassicurava che cu faci còfani faci panara.

Gli artigiani della canna si chiamavano perciò cofaneddhari e al Paese Vecchio di Mèlito erano indicati con tale soprannome alcuni appartenenti ai Toscano del ramo Parrini.

C’era anche a canna d’i ficarazzi con cui si raccoglievano i fichi d’India: in genere si traeva dal canneto la canna più lunga e più robusta e la si lasciava stagionare per bene; poi ne si incideva a strisce di circa venti centimetri nella parte più grossa e le si allargava inserendovi un cuneo di legno fissato col fil di ferro; si otteneva così un arnese leggero, maneggevole e resistente che permetteva il raccolto anche a diversi metri di distanza dalla pianta.

Cannìzza era invece una stuoia di canne intrecciate di forma rettangolare e di varia lunghezza; sollevata da terra su un qualunque supporto (muro, cavalletto, ceppo) veniva usata per essiccare fichi e pomodori (più cannìzze disposte vicine costituivano la ncannizzàta). Accartocciata a forma di cilindro e posta con una base sul pavimento a formare la ghissàla era un ottimo contenitore per cereali dato che la base inferiore manteneva fresco il contenuto mentre la base superiore scoperta ne permetteva l’aerazione evitando l’attacco di parassiti (pètudde).

Con canne affiancate e legate si costruivano cancelli rudimentali da appuntare su montanti di legno oppure pannelli protettivi per orti e per corti domestiche.

A volte tessuti di canne (parite, cioè pareti) venivano usati sia per tramezzare sommariamente gli spazi delle abitazioni unicellulari, che costituivano la maggior parte delle abitazioni contadine, e sia come fondo del tetto su cui poi venivano allocate i coppi (ceramìte).  

Cann-ici è invece diminutivo greco, con metatesi della prima vocale del suffisso (cann-aci > cannici); indica il culmo dell’ampelodesmo (lisàra) con cui si cava la pasta di casa (maccarruni).