A lungo nella storia del secondo dopoguerra l’origine del “caso italiano” è stata rinvenuta nella presenza del più forte partito comunista dell’Occidente. Oggi il dato più macroscopico della “questione italiana” è la latitanza della sinistra, la mancanza di un’autonoma agenda progressista delle forze che dichiarano di appartenere a questo campo del sistema politico. È di questo che specificamente e trasversalmente si occuperà il numero 5 del nostro web magazine. Non ci persuadono, infatti, le spiegazioni della questione italiana che vanno per la maggiore. È giunto per noi il tempo di cominciare a dare un nome semplice e inequivoco al male oscuro della nazione: sinistra assente.
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Il “preoccupato stupore” con il quale il commissario europeo all’economia ha “commentato” la fine del governo Draghi è l’icona della strumentale rimozione della questione italiana da parte delle attuali classi dirigenti. Il preoccupato stupore non è la risposta al male oscuro dell’Italia, ma una via di fuga che si propone di legittimare l’ineluttabilità di un ennesimo commissariamento, più o meno hard, più o meno soft, dell’Italia. Gentiloni ne è semplicemente il megafono. La responsabilità storica e politica è tutta nella diserzione di una sinistra senza agenda che ha programmaticamente ‘deciso’ di fare a meno di un progetto complessivo di società. La sinistra italiana approda al draghismo perché priva di una sua idea di modernizzazione e civilizzazione. E pensa di salvare l’anima aggrappandosi alla forza disciplinante di un (malinteso) vincolo esterno, di un qualche “pilota automatico”. La sinistra ha ormai smesso da tempo di interrogarsi su quale debba essere l’orizzonte e il destino dell’Italia nel mondo e in Europa. Quella europeizzazione e quell’atlantismo senza qualità che sono al centro della nostra attenzione sin dal numero zero di fuoricollana.it.
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È già tempo di fare un primo bilancio dell’esperienza del governo Draghi e del “draghismo”, dell’azione di un esecutivo “anomalo” quale quello presieduto dall’ex Presidente della BCE. Un esperimento volto a ridefinire, a partire dalla prassi, i rapporti di forza tra gli organi che sostanziano la forma parlamentare di governo così come è disciplinata dalla Costituzione italiana… Ma Draghi e il draghismo non sono solo questo. Se lo fossero non se ne comprenderebbe la “fortuna”. Questo governo è “costruito per fare”, quante volte abbiamo sentito negli ultimi mesi questo laconico messaggio veicolato dalle onde mediatiche? Il fare di un’epoca che non ne vuol sapere di tramontare. Il fare è sempre procedurale, ha a che fare coi mezzi, mentre la prassi, la politica, è finalistica, si domanda se quelle cose devono essere fatte e perché. Per questa ragione siamo persuasi che il “draghismo non è affatto finito con il (primo) governo Draghi. La corsa al centro, oggi il centro largo moderato che ambisce a prendere il posto del già velleitario campo largo, si ripropone esplicitamente di perpetuarne la traiettoria attraverso il rilancio della c.d agenda Draghi. E, invero, Draghi ha, nel corso della crisi contribuito in prima persona a destabilizzare i due schieramenti “estremi” e ha, più o meno intenzionalmente, lavorato alla formazione di un centro ‘responsabile’ come soluzione possibile per la prossima legislatura (…).
°°°Vedremo. Non è nostro compito fare previsioni elettorali, né scelte di schieramento. A noi interessa soprattutto capire che cosa Draghi e il “draghisno” hanno e continuano a rappresentare: un freno o un acceleratore del lungo declino italiano sul piano civile, culturale e sociale, oltre che strettamente economico? I pregi che lo rendono virtuoso agli occhi dei suoi estimatori (la natura terzista, la tendenza a muoversi in uno spazio centrale tra i due schieramenti e a incarnare i valori della buona borghesia: europeismo illuminato, acritica fede nelle virtù delle competenze, del merito, dell’innovazione, della concorrenza), sono idonei a suscitare una reazione vitale del corpo civile del paese? O, al contrario, non si tratta di un ennesimo anestetico che accentua quel deficit di impegno politico e civile che già corrompe la nostra società e ne debilita molecolarmente le energie più giovani e fresche?
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La tecnopolitica draghista cavalca, più o meno consapevolmente, la crisi morale del Paese e non mostra alcuna preoccupazione per il declino della partecipazione e del conflitto, i due ingredienti che fanno di ogni democrazia una buona democrazia. Draghi ha riproposto la retorica dell’uomo solo al comando, del domatore degli egoismi partitici, del tecnocrate che sovrasta le assemblee rappresentative prigioniere delle manovre di palazzo. L’ennesimo azzardo che ha prodotto la scomposizione e la ricomposizione del sistema politico sulla base di modesti calcoli elettorali e personalistici dei tanti galli nel pollaio del nostro sistema politico, come avviene ormai da tempo, da quando è venuta meno la funzione politico-pedagogica dei corpi intermedi (politici, sindacali, territoriali,) e il paese ha intrapreso, grazie anche al contributo di improvvide leggi elettorali, la strada del leaderismo fine a se stesso e della connessa illusione della politica del fare (…)-
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A dispetto di ciò, la tecno-politica è da tempo l’orizzonte prediletto di (quasi) tutta la sinistra italiana, ormai orfana di ogni carica progettuale autonoma e sempre più complice di una etica e pratica della democrazia quale appannaggio di quel “popolo dei signori” di cui parla Luciano Canfora, riprendendo e approfondendo una felice definizione avanzata a suo tempo da di Domenico Losurdo. Una postmoderna rivoluzione passiva che riduce la politica ad un gioco e un mestiere per addetti ai lavori, ad un sottosistema ‘amministrativo’ senza anima e senza corpo, privo di qualsivoglia connessione emotiva con le classi popolari e con la massa sempre più larga degli esclusi dai benefici e dai privilegi di una società di mercato sempre più preda di interessi e forze predatorie. Una involuzione in senso oligarchico della democrazia e della politica del nostro Paese di cui è oggettivamente complice una sinistra che ha messo da tempo in archivio la lezione gramsciana e, persino, quella weberiana della politica come la più alta delle professioni (…)
Si dirà che peccheremmo di provincialismo se pensassimo che questi fenomeni riguardino esclusivamente l’Italia. E, in effetti, quasi tutti i paesi occidentali hanno conosciuto fenomeni analoghi. Ciononostante, quello italiano resta un caso del tutto speciale, quasi che la scomparsa delle culture politiche di orientamento popolare e democratico dominanti fino alla fine degli anni Ottanta abbia creato le condizioni perfette per un esperimento radicale. Per questo noi pensiamo che proprio qui da noi più che altrove è un dovere democratico rimettere in discussione il paradigma della neutralizzazione della politica. Solo così riacquisterà piena cittadinanza e legittimità un’agenda autenticamente alternativa e progressista, capace di mettere all’ordine del giorno i temi da affrontare. La rivoluzione energetica ecologica e digitale, la questione demografica, quella fiscale, quella femminile, quella meridionale, il declino delle istituzioni scolastiche e universitarie, quelle delle istituzioni della giustizia (…) Consapevoli che andare nel merito di queste sfide significa essere impietosi con una sinistra che ha colpevolmente messo in archivio le parole di Enrico Berlinguer in quella essenziale e memorabile intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 (…). Un atto di accusa rivolto allora a chi stigmatizzava la diversità della sinistra italiana ma che oggi noi rivolgiamo, con dolore, agli “eredi” del suo, del nostro, mondo. La questione morale come questione altamente politica e altamente costituzionale, la questione morale come madre di tutte le questioni. Una lucida rappresentazione dei termini essenziali del declino del Paese e, al tempo stesso, il fondamento di una vera agenda alternativa e progressista.
*docente ordinario di diritto costituzionale, UniUrbino. Direttore di Fuoricollana, dove questo articolo è già stato pubblicato.