INTERVENTI. Pensieri sparsi su Napoli e il terremoto

INTERVENTI. Pensieri sparsi su Napoli e il terremoto

La scossa fu lunga e potente. Io stavo in cucina – era l’ora in cui bisognava preparare la pappa – e con me c’era una signora di luminoso sorriso e gran cuore. La tata – così si faceva chiamare da mia figlia, piccolissima – tirò fuori da una tasca un rosario e cominciò a fare, con quello, grandi segni di croce nell’aria, e chiedendo a Dio misericordia. La scossa si esaurì senza danni oltre la paura e la pappa avvenne tranquillamente.

È uno dei tantissimi ricordi di scosse dei due anni di bradisismo, 1982-1984, che ho vissuto nella stessa casa dove continuo ad abitare.

Sarà per quell’esperienza – che ebbe le sua ansie e le sue paure, ma si esaurì senza tragedie – che, tuttora, di fronte a scosse sempre più ravvicinate e forti, in sottofondo spero che, anche stavolta, non ci sarà né il gran terremoto né la grande eruzione.

Cosa che non impedisce, in un altro sottofondo, un rapido passaggio di fotogrammi nella mia mente: una scossa violentissima, un boato assordante e l’Apocalisse. La fine non solo mia, ma, soprattutto, della mia casa, del mio quartiere e di tanti altri quartieri. La fine di una parte di Napoli come da lungo tempo la conosciamo. E, magari, frotte di visitatori incantati dal Nuovissimo Monte (il Nuovo si formò per l’eruzione del 29 settembre 1538): una meraviglia prodotta da una tremenda devastazione.

Tra questi estremi – l’ipotesi migliore e quella peggiore – passano tutte le considerazioni su ciò che, con le conoscenza scientifiche disponibili, uno Stato dovrebbe fare. E anche una società e, non ultima, una stampa: con informazioni che non siano né negazioniste né allarmiste. E con piani di evacuazione realistici (chi conosce le strade di Napoli sa che ci si blocca facilmente), provati e riprovati (altrimenti si morirà di blocco stradale e di panico: e, magari, dei gas di scarico delle macchine prima che dei fumi del vulcano).