Reggio, la città dei tagliatori di teste

Reggio, la città dei tagliatori di teste
Reggio Calabria ha una storia antica che affonda nei millenni, fatta di grandi sventure e piccole grandezze,
di tanta miseria e poca nobiltà, di poche imprese e tanto dolore. Drammi, sventure, terremoti, maremoti, il destino non ci ha risparmiato nulla. Invasori crudelissimi, schiavitù, una patria che mal ci tollera, noi stessi che non ci sopportiamo.

Però ci teniamo alle tradizioni e a conservare le consuetudini. Una delle più antiche è quella del taglio di teste. Siamo un popolo abituato allo spettacolo cruento della testa infilzata su una picca. Già in epoca antichissima si tagliavano capocce: i siracusani che entrano in città e fanno un monticello di capocce, e i turchi che prima cavano gli occhi e strappano la lingua per non farsi mancare nulla, e gli stessi dominatori della città che puniscono i rei ornando i merli del castello, con il patibolo e il boia incappucciato e tutti a guardare lo spettacolo. O conquistare i sobborghi e issare i macabri trofei sulle lance, come quella di Sancho D’Acerbo conestabile della Motta Rossa, riportata in città tra le ovazioni della plebaglia.

Punire i rei che si ribellano alla tracotanza dei governatori di turno, come comandò il Ferri durante la peste del 1743, e le teste di Suraci e Bellobuono e Vitale a Porta San Filippo. O come la testa del Romeo con ancora in bocca l’urlo “Viva L’Italia”, rimasta a marcire nel palazzo comunale per un mese ad onta perenne del romanticismo ottocentesco e dello sviluppo civile e morale.

E le teste tagliate dai loschi figuri locali, una offerta -raccontano- su un vassoio d’argento ad uno dei tanti
capi dei capi, l’altra lanciata in aria e usata come bersaglio, monumento perenne della vergogna mafiosa.
Questa tradizione prosegue, con modi meno appariscenti, ma con lo stesso truculento piacere. Il popolo
reggino è un popolo affamato di teste tagliate, di piazze col boia al centro e di colpevoli ghigliottinati.

Quanto gusto nell’assistere alla caduta di chiunque, bandito o galantuomo non importa, l’importante è che la sua testa tagliata venga mostrata al popolo innocente, e poi issata su una lancia o posata in cima ad una colonna infame.

Non c’è lealtà o dubbio che tenga. Gli amici di ieri sotto al patibolo, gli scannatori morali già ad affilare rasoi ben prima delle sentenze, le calunnie che non sono venticelli ma uragani, la testa tagliata è la delazione a sperpero, la denigrazione per hobby, l’affermazione silenziosa che nessuno deve e può ergersi sopra gli altri, l’atto supremo della democrazia egualitaria nella quale siamo tutti nani, e chi non lo è viene ridotto tale dalla lama affilata della collettività carnefice.