di MAURIZIO MARINO - “Il Sud è niente” è già qualcosa, perché ci mette al corrente che “se le cose non le dici non possono far male”. Ed è già qualcosa il tentativo paterno di creare una barriera di salvezza intorno alla figlia, protagonista agli esordi in questo lungometraggio che per noi reggini è familiare non soltanto per le immagini che ci fanno rincorrere con la forza della curiosità le vie, i negozi, i marciapiedi, le spiagge della nostra periferia,
ma lo è, ancor di più, per i silenzi, il non detto, il supposto, l’immaginato, l’ipotizzato – tracce di un mondo periferico e arcaico che ci spacca lo sterno, ci fa le gambe secche e il cuore in poltiglia. Sarebbe stato facile cadere nel tranello della retorica, ma il talento di Fabio Mollo ha fruttato al film quella giusta dose di asciuttezza che ha finito per dettare alle sequenze un preciso e antico refrain: “il Sud è niente. E niente succede.”
E che cosa poteva succedere nella città delle amicizie, dei comparati, delle scelte ambigue? Che cosa può ancora succedere se siamo divorati dal niente? Il niente che ci sbrana, ci assedia fin dentro le nostre idee, fino a rubarcele con l’inganno meschino, con la frase mai detta. Questo è riuscito a fare Fabio Mollo, a dire più di quanto sia stato detto finora, senza che udissimo la voce del male.
È impressionante uscire dal cinema sentendosi reggini, dopo il film. Perché lo sai, se sei reggino, che quella è la verità, per quanto il Natale provi a nasconderla dietro camionate di regali. La verità – per quanto indaffarati a sbrigare la consuetudine doverosa dell’imballaggio buonista, del rimedio consumistico, del dono più borghese che cristiano – è quella: è lì, davanti a te, troppo silenziosa per non sentirla. Ti invade durante il film con la forza della fotografia che graffia con le sue suggestioni, con le inquadrature ampie sullo stretto dai toni freddi, con quelle strette su Sbarre centrali accecate dal sole, dentro la pescheria del padre della giovane attrice protagonista, Miriam Karlkvist, con quella faccia che buca lo schermo, ci frantuma gli occhi, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Questo film è la storia di una famiglia che famiglia non è più, se per famiglia intendiamo, etimo alla mano, il luogo in cui si mangia e si parla – dalla radice indoeuropea *fa- (parlare e mangiare, come per fama e fame, famoso e affamato, famelico e famigerato, e soprattutto infame). Qui si mangia poco e si parla ancora meno. Qui è entrato il vento della tragedia che ha investito Pietro, fratello della ragazza, e il padre, per proteggere lei, decide di non parlare di quel dolore, fino a quando, messo alle strette dalla figlia, confessa che Pietro è stato ammazzato, lo hanno ammazzato. E lei, che poco prima lo cercava in ogni luogo, persino dentro la catarsi laica del mare, e noi con lei in quella religiosa della processione della Madonna, coi volti dei portatori storpiati dal dolore e dalla fatica, alla fine, tutti assieme non possiamo non sentire addosso il senso d’impotenza che fa dire al padre “andiamocene”. Verrebbe voglia di andarsene tutti davvero, con Fabio Mollo e con quelli come lui, che hanno la magia negli occhi, e la sanno regalare. Però rimaniamo, e urliamo il nostro no come lo urla lei di fronte alla decisione della fuga. Un no inequivocabile. Un no fatto di desideri e speranze, di amore, con la scena finale di abbandono dei corpi all’atto sessuale dentro il ventre della barca, con l’emblema verghiano nell’iniziale del nome, Pietro come Provvidenza. Qui, però, a differenza che nei Malavoglia la barca non si sfascia, ma diventa contenitore d’amore, teca di corpi che trovano il loro risarcimento dai mali della Reggio che vorremmo ancora bella e gentile, senza più nemmeno un po’ di nostalgia del suo futuro.