I Bronzi negli occhi dei bambini ciechi: il sogno di Natina Pizzi

I Bronzi negli occhi dei bambini ciechi: il sogno di Natina Pizzi

I Bronzi nella loro nuova disposizione al Museo Archeologico

di NATINA PIZZI*- Era novembre e il sole era meno insolente dei mesi estivi quando scotta la pelle e brucia i fiori. A novembre il sole vuole stare accartocciato tra le nuvole e lancia i suoi raggi nani mentre la terra concede le zolle all’aratro. I buoi vanno, i buoi tornano, i buoi sono stanchi e a sera rientrano sfiniti nelle stalle.

Era novembre quando mi ritrovai nello studio del professore basso tarchiato e pelato

per una visita oculistica di routine. Il professore con l’oftalmoscopio tra le mani impazzava ossessivo sulle mie pupille ripetendo «in alto a destra, in basso a sinistra» e poi «in alto a sinistra, in basso a destra».

Lo guardai. Aveva in viso il colore del pallore.

Lasciato il micidiale strumento di piccole luci, si sedette, prese penna, fogli e incominciò a scrivere. Si fermò un attimo e mi chiese:

«È proprio lei la signora Clorinda?».

Scattai dalla sedia con smarrimento e gli risposi:

«Si, sono io, perché?».

«Credevo di avere sbagliato scheda, non riesco a capire di che si tratta…».

Non seppi mai cosa scrisse in quei fogli. Scappai dallo studio e avrei attraversato a nuoto il mare se non avessi trovato una zattera semiaffondata che mi condusse dall’altra parte dello stretto.

Meno male che c’è un mare, una zattera, uno stretto!

Il giorno dopo mi ritrovai, spaventata e incuriosita, nello studio di un altro professore di passaggio nella mia città, proveniente da uno dei più grossi centri oftalmologici italiani. Il professore era bello, alto, abbronzato e con la sensibilità di un elefante. Tentò di farmi leggere lettere e numeri stampati su quadri illuminati. Che orrore e che terrore! Quei quadri erano come giudici che emanavano sentenze, senza difensori, senza prove, senza appello e senza cassazione. Nel mio caso ci sarebbe voluta una cassazione bugiarda.

Il superoculista sentenziò, con il sorriso abbronzato di chi veniva da Vulcano, nelle Eolie:

«Con la vista che ormai ha quasi definitivamente perduto non potrà né leggere né scrivere!».

Di rimando:

«No, professore, non può essere un percorso di buio, senza specchi, sguardi, mani, fogli, penne, libri».

Avevo un “kilt” rigorosamente scozzese, abbinato a un maglioncino rosso. Mi strinsi nel maglioncino e nel “kilt” e tornai a casa dove mi avvolsi in un plaid inglese. Mi strinsi fra le mani le tempie che pulsavano. Le dita si dimenavano impazzite come sulla tastiera di un pianoforte.

Stavo forse componendo la sonata di quella che sarebbe stata la mia vita? Si, non potevo attenermi a un professore che scrive non si sa cosa né a un altro che decreta il percorso nullo dell’altrui destino.

Io, Clorinda, volevo costruire una girandola di luci accese, colorate, con steli alti fino al cielo che si incontrassero con le stelle, confrontandosi tra loro su quel lembo di nero dove i rassegnati e i poco coraggiosi si siedono, con le mani sul grembo, per raccontarsi lamenti e rimpianti.

Decisi di piantare i piedi per terra per guardare la realtà con gli occhi della mente che, sovrapposta a quella degli occhi, costituisce una doppia mente da dove scaturiscono idee in fluorescenza e i sogni spuntano da sotto le pietre.

Io, Clorinda, sognatrice e con i piedi per terra, mi dissi:

«Non mi arrendo a fogli sibillini e a verdetti emanati da illustri e maledetti professori. Credo in una realtà vissuta intensamente, comunque si presenti, per elevarla in bellezza e

qualità.

È bellissimo sognare di vedere, è bellissimo vedere sfilare i colori l’uno dopo l’altro, in gran parata, come se fossero soldati che stanno aspettando l’inizio della battaglia per far comprendere agli altri da che parte stiano la forza e il coraggio di vivere e da che parte stia, al contrario, “le mal du vivre”.

Io, Clorinda, sogno i miei desideri, le mie voglie, le mie incapacità, le mie possibilità.

Io, Clorinda, scrivo i sogni su un quaderno, su una mano, su una pietra, su una foglia, sul mare, nell’aria, nelle crepe della roccia dove i pipistrelli, anch’essi ciechi, sbattono le ali nelle notti di mesi che non so, nei giorni ingialliniti nella memoria.

Sognare di me, sognare di te, sognare di noi, ad occhi aperti, perché è divertente sognare ciò che si vuole. Ma il sogno è anche visione onirica ed è proprio nei simboli onirici che ci si incontra, o meglio, che ci si scontra con la verità, sfuggente e occulta.

Quella notte ero stanca e, come quando si è molto stanchi, non riuscivo a dormire.

Mi addormentai nel tardo pomeriggio, quando il sole si stava genuflettendo nel mare. Il mio sonno fu profondo, e sognai di loro, di bambini che nessuno sogna mai e che tutti

preferiscono non sognare.

Il sogno fu animato da bambini mortificati nel corpo e pronti ad accogliere con l’anima i doni. Sognai di essere, insieme a cinque o sei bambini, nella sala dei Bronzi del Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria.

I bambini erano pluriminorati, ovvero ciechi con menomazioni aggiuntive.

Si, fu molto divertente quel sogno, pieno di gioia e di entusiasmo e la sala pulsava insieme ai battiti del mio cuore e di quello dei bambini. Nel sogno, la piccola Matilde, bionda e con gli occhi azzurri, era cieca, muta e su una sedia a rotelle, ma il suo sorriso esprimeva il sorriso del mondo, di quel mondo che noi tutti sogniamo, ma che in realtà è cupo e triste. Dal sorriso di Matilde sfociavano incredibili emozioni di gioia, di vitalità, di voglia di comunicare il bisogno di affetto, di carezze e di comprensione. Furono talmente forti le emozioni che alla fine Matilde pianse.

Alle spalle di Matilde c’era Fabrizio, il bambino cieco e su una sedia a rotelle che parlava senza fermarsi un attimo. Diceva di conoscere molte cose, di saper scrivere, di saper leggere e di saper usare il computer. Fu molto colpito dall’ascia che si trova nella sala della preistoria di quel museo; che strano, chissà perché Fabrizio, facendo roteare l’ascia nelle sue mani, si divertiva tanto.

A volte i bambini ci sembrano molto strani e non ci rendiamo conto che sono molto creativi, percettivi e capaci di cogliere quello che a noi sfugge. Il senso comune dice: “Che strano quel bambino malato”.

Si, perché la gente non comprende che proprio il bambino cosiddetto malato è capace di capire quello che le persone cosiddette sane non capiscono, anche se gli vengono spiegati tutti i dettagli delle cose.

Alessandro, cieco e paraplegico, era molto furbo, voleva toccare tutto, voleva sapere tutti i perché e non si accontentava delle spiegazioni e, cantilenando, continuava a chiedere, a chiedere sempre.

Maria Luce, sempre ovviamente cieca, camminando carponi, si spingeva contro le vetrine, voleva prendere tutto tra le mani, perché sapeva che le sue mani leggevano al tatto, cosa che agli uomini comuni non è concesso. Di questo lei era molto divertita e ripeteva “Io lo so, io ho capito e tu no”. Maria Luce aveva i jeans strappati a furia di gattonare e nel sogno mi apparve anche alzata, sollevata verso l’alto come se implorasse qualcosa ad un Dio che non conosceva, ma del quale aveva sentito parlare.

Non posso dimenticare in quel sogno il piccolo Francesco, che camminava attaccato ad un piccolo bastone bianco e che ruotava gli occhi, forse nella speranza di riuscire a vedere qualcosa. Ruotavano e ruotavano gli occhi di Francesco, e Francesco non si rassegnava a non vedere, era cerebroleso, ma che importava? Francesco non lo sapeva e voleva conoscere il mondo.

Non so il nome dell’ultimo bambino, si stese a terra e non volle sapere più niente.

Eccoci nella sala dei Bronzi, dove io, testarda e temeraria anche nel sogno, con la complicità di alcuni dipendenti del Museo, riuscii a far salire i miei piccoli ciechi e pluriminorati sulla testa dei Bronzi. I bambini incominciarono a toccare, con il tocco delicato di chi non vede, i lunghi riccioli, il naso, la bocca, gli occhi e poi insieme tutta la testa dei Bronzi. E poi continuai, in quel meraviglioso sogno, facendogli toccare le spalle, i muscolosi bicipiti e tricipiti, i pettorali, il tutto, naturalmente, tra mille risate, tra tanta gioia, tra tanto stupore, tra tante manine, tra tante domande, tra tanto piacere di trasgredire e di toccare l’intoccabile.

Su di me si addensavano nuvole rosse e credo fosse il piacere, finalmente soddisfatto, di far fruire l’arte anche a chi, per volere di un dio minore, è stato inesorabilmente proibito di vedere con gli occhi.

I miei piccoli erano felici e non volevano scendere e non volevano tornare nel mondo perché sapevano che dietro l’angolo li aspettava la discriminazione.

Il sogno finì perché improvvisamente si sentì un rimbombo.

Anche io mi spaventai vedendo venire verso di me dei fantasmi con gli occhi coperti da occhiali spessi e con lo sguardo cattivo.

Mi svegliai di soprassalto, trafelata e angosciata. Mi resi conto subito che era stato un sogno, perché solo in un sogno i bambini ciechi e pluriminorati avrebbero potuto toccare i bronzi di Riace di cui il mondo parla, il mondo scrive, il mondo li ha guardati e non li ha visti.

No, non è un paradosso: la gente guarda e non vede e stranamente non vede l’essenziale. I sogni dell’umano si ripetono notte dopo notte. Più o meno frequentemente riusciamo a

sognare le stesse cose perché il sacco dell’inconscio è pieno e vuole alleggerirsi. Anche a me accadde più di una volta che quel sogno dei bambini ciechi e pluriminorati si sia ripresentato con prepotenza e in svariate sequenze.

Rividi, a distanza di molti anni, il bambino senza nome che si era scaraventato per terra rifiutando di ascoltare, di toccare e di sapere. Fin dal primo sogno si rifiutò e rifiutò il mondo. Il mondo, forse, l’aveva rifiutato, come spesso sa fare. L’ultima volta mi apparve sul pavimento e mi accorsi che la sua anima, bianca e trasparente, saliva per raggiungere la visione completa che quaggiù gli era stata arbitrariamente sottratta.

Il piccolo Francesco appariva sempre con le cornee ruotanti, temerario e inconsapevole del malessere cerebrale che lo tormentava, sottraendogli la realtà che gli sarebbe spettata.

Nel sogno molte vetrine del museo erano state spezzate dai pugni di Maria Luce. Ormai adolescente, con i jeans di misura variata, ma sempre strappati, continuava a gattonare e a

mostrare le mani dotate di quel tatto subliminale e raffinato che solo la cieca può possedere. Mi apparve col capo chinato verso il basso, coi muscoli rilassati sul petto, e aveva dimenticato quel Dio tanto cercato.

All’angolo di una sala del Museo, sempre seduto sulla sua sedia a rotelle, quasi come un reperto archeologico, Alessandro taceva, la gente gli parlava, Alessandro taceva. Alessandro non chiedeva. Nel sogno anch’io mi sono avvicinata ad Alessandro e da una mia carezza ho percepito che il suo handicap aveva inesorabilmente stroncato le curiosità.

In quel sogno che tornava, Fabrizio chiedeva ossessivamente l’ascia preistorica. Piangeva, gridava, si dimenava, e a niente servì dargli quell’ascia. Aveva con sé un computer portatile, cercava di scrivere, cercava di leggere, e non ci riusciva. Fabrizio diceva a bassa voce di non sapere usare il computer.

Un raggio di luce, in quel sogno, colpiva il volto di Matilde ormai donna, e i suoi occhi sembravano dei laghi cristallini. Le sue mani si muovevano, tremavano, cercando quelle del padre che le stava accanto. Matilde non avrebbe acquistato alcuna autonomia, sarebbe rimasta dipendente, dipendente da un padre che l’amava, ma non dipendente da sé stessa. Rividi Matilde piangere, piangere, piangere per sé.

Al ritorno nella sala dei Bronzi tentai, come in quel primo sogno, di far salire sulla testa dei guerrieri di Riace i miei amici ciechi e pluriminorati, ormai adulti. La delusione fu enorme,

nessuno volle poggiare le mani sul bronzo, nessuno volle sfiorare quei muscoli, quei pettorali e quei lineamenti, nessuna risata, nessuna gioia, nessuna domanda.

Le nuvole rosse si addensarono sul mio corpo, mi avvolsero e mi distesero. Nessuna trasgressione sarebbe servita, l’esperienza artistica non è contemplata per i disabili. In effetti la discriminazione aveva imperversato sull’handicap con tutta la sua ferocia e la sua violenza sottile.

 

* Con questo racconto, intitolatoa "E fu sogno e fu realtà", la scrittrice e poetessa Natina Pizzi ha vinto il primo Premio della Seconda Edizione (2013) del Concorso letterario nazionale “La vita e i suoi racconti”, promosso dalla Rivista “Poeti e Poesia” diretta da Elio Pecora.