
di TIZIANA CALABRO'
Due tavoli di legno uniti. Poggiate sopra, maschere bianche dai nasi grotteschi rivolti verso l’alto, illuminate da un faro del palcoscenico a farle risaltare. Ai lati due sedie vuote. Lo sfondo del teatro è essenziale. Tutto è avvolto da un mare nero e placido. Quando il pubblico, accorso numeroso a riempire i posti disponibili, capisce che lo spettacolo sta per iniziare, si zittisce. Un silenzio che è attesa per uno rappresentazione che non deluderà gli occhi puntati sulla scena. Lo spettacolo che il Globo Teatro Festival - “ un festival internazionale di teatro che abbatte i confini geografici dell’arte attraverso l’attivazione di una frontiera multiculturale e multilinguistica” - ha sagacemente portato nello scenario mozzafiato del Parco Ecolandia ad Arghillà di Reggio Calabria . La collina che sembra un’isola appoggiata tra le nuvole e il cielo. Lo spettacolo è di Pierre Byland: “Confusion”. Byland, clown di fama mondiale e creatore di una maschera capace di trasformare il volto e il corpo in una dimensione altra, magica e poetica, facendoli progredire allo stato dell’infanzia: il naso rosso.
Byland insieme a Mareike Schnitker, attraverso l’arte claunesca, in cui il corpo diventa narrazione dell’animo umano, ha condotto il pubblico nelle pieghe più nascoste dei comportamenti che si svolgono nella vita quotidiana. “Tutto si muove, noi parliamo e noi ci muoviamo”. E muovendoci, sembrano dire Byland e la sua straordinaria compagna di palcoscenico, raccontiamo chi siamo. Indagando i corpi nello spazio ci spiegano attraverso lo sguardo dell’umorista, mai spietato, ma comprensivo e poetico, la fragilità umana. Salutarsi, mangiare, rialzarsi e sedersi, camminare, diventa l’occasione per indagare la verità innocente del corpo, le sue imperfezioni, il suo essere deformato. “Siamo tutti deformati” dice lo sguardo del clown che ci racconta la verità. Con le nostre andature sghembe, le pance, la testa reclinata da un lato o in avanti, le nostre cadute che a guardarle fanno sempre ridere. Quasi un invito a non prenderci troppo sul serio.
Poi il clown, si sa, mentre sei lì a sganasciarti dalle risate, all’improvviso cambia l’assetto del racconto. Ti obbliga all’immobilità che “rende il movimento chiaro”. Così entrano in scena le maschere, quelle bianche poggiate sul tavolo e fino a quel momento mute e dormienti. Attraverso il corpo prendono vita nella loro inespressività. Le indossa per prima la Schnitker. Una maschera con un sorriso stereotipato, grottesca. All’improvviso il coup de théâtre. Lui si avvicina alla maschera, guarda il pubblico e con la sua voce calma, che sembra un invito a non avere paura dice: “Una persona che ride non vuol sempre dire una persona felice”. Toglie la maschera alla donna, che ci mostra il suo volto addolorato. Poi lo spettacolo prosegue in un crescendo di gag e sorpresa.
Ci vuole un grande amore per raccontare l’essere umano, in cui il clown non smette mai di credere. Ci vuole molta indulgenza, stupore e tenerezza, per raccontare la sua verità imperfetta, per raccontare la confusione delle nostre vite.
Gli applausi, al termine dello spettacolo, sembrano non voler finire più. Poi le persone presenti lentamente lasciano il loro posti. Sono sorridenti e forse un po’ meno confuse.