Anime Nere. La Calabria applaude e si emoziona

Anime Nere. La Calabria applaude e si emoziona

animenereareggio

di ANTONIO CALABRO'

La prima proiezione a Reggio Calabria del film di Munzi “Anime Nere”, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, si è conclusa con una emozionata ovazione del pubblico, che aveva colmato la sala in ogni ordine di posti.

Emozione e lacrime, consapevolezza e rabbia, ma anche tanta gioia per un sentimento d’appartenenza autentica, per la rivelazione catartica di una realtà che ci appartiene e che finalmente viene svelata oltre ogni stereotipo, oltre ogni semplificazione, e con il tocco geniale dell’artista.

Munzi ha aperto un varco nei nostri cuori. Ha scavato in profondità nel sudiciume (la collaborazione di Criaco ne ha semplificato l’operazione, impossibile da fare se condotta secondo i parametri delle ovvietà attualmente predominanti), tirandone fuori le pietre preziose dell’umanità. Ha reso giustizia all’ingiustizia; ha riassunto in breve secoli di storia; ha perpetuato la volontà di riscatto ; ha abbattuto pregiudizi e calunnie, realizzando alla fine un film che ha tutte le caratteristiche della Tragedia, che supera il contesto ridotto delle situazioni locali e che, come tutta la vera arte, possiede un carattere universale.

Il volto schiantato dal dolore della madre è quello di Ecuba che piange Ettore; è il viso della Pietà, il dolore senza tempo della vita di chi è consapevole; i fatti e le azioni dei protagonisti sono scuse per l’intero impianto che, sin dall’inizio, impregnato da un terribile pathos, fa presagire la catastrofe assoluta. Il film prepara, costruisce condizioni, spiega e illustra senza mai scadere nel didascalico, e alla fine realizza compiutamente la sventura mortale. Che non è calabrese, non è legata al crimine, non è legata al bene o al male, bensì appartiene all’incapacità dell’uomo di accettarsi, mortale, solo e infelice.

Lutti e infelicità, paura e odio. Ma anche tenerezze e desiderio di normalità, persino all’interno di una comunità che fa del mantenimento della tradizione una causa di vita. Uomini animati da confuse idee di miglioramento prigionieri di quella violenza che in realtà anima il mondo intero. Paesaggi di bellezza struggente sfregiati dalla prepotenza sfrenata di un desiderio liberato dai freni del vivere civile. Ragazzi che altrove godrebbero dei benefici della contemporaneità, che invece sprofondano nel vortice ribelle dell’affermazione individuale.

E poi, sempre, le capre. La parola Tragedia, che deriva dal greco Tragoidìa, significa “Canto del capro”; e proprio questa presenza inquietante, quella carne consumata avidamente dai protagonisti, è la nostra carne, la nostra carne di calabresi ma ancora di più è quella di tutti. Sacrificati sull’altare delle ricchezze cieche, immolati ad un Dio oscuro, irrazionale, feroce.

Il film è potente e rivoluzionario. Potente perché coinvolge fino a sconquassare; rivoluzionario perché gira pagina rispetto ad un certo modo di trattare alcuni fenomeni. Nessuna epica western, nessun cedimento al blockbuster, nessun ammiccamento al pubblico, persino la musica, sulla scia di Bresson, è quasi bandita: realtà cruda, sbattuta in faccia con la forza della verità. Fa male, ma induce al pensiero. L’irrazionale spinge alla logica. La crudeltà spinge ad amare l’umanità.

Il finale è degno di Melville. Tutto converge verso l’approdo senza ritorno. Sofocle ed Euripide, più che Eschilo. Non c’è giustizia, non c’è vendetta, non c’è armonia. La morte, e nient’altro. Implacabile, senza scampo. Il Fato che non concede nulla. Così doveva essere, sin dall’inizio, e così è stato. Gli Dei si beffano di chiunque li sfidi. Tragedia, e dolore senza fine.

Alla fine, si piange. Piangiamo sulla sventura senza ritorno della condizione umana. Piangiamo su un destino disumano e malvagio. Piangiamo e vorremmo prendere per mano i protagonisti, tutti i protagonisti, e consolarli con tenerezze e affetto. La disperazione totale conduce nel punto più buio di questa notte epocale. Ed è soltanto il racconto,ed il suo assoluto valore artistico, a rischiararla e ad infondere ancora speranza. Speranza per un riscatto che non abbia bisogno di Ade per realizzarsi, e che, in “Quest’atomo opaco del male” diventi fratellanza, amore e concordia.

Una grande prova artistica, uno splendido punto da cui ripartire, un esempio di valore consapevole, di critica, e di infinito amore per la nostra maltrattata terra.

Grazie Criaco, grazie Munzi, grazie a tutto il brillantissimo cast. Siamo ancora più felici di essere calabresi, adesso.