Mirella L., classe '73, lo scorso 3 giugno aveva dato alla luce due gemelli con parto cesareo. Tutto sembrava procedere normalmente e dopo qualche giorno la donna è tornata a casa. Ma è lì che ha cominciato ad accusare dolori e malessere, al punto di decidere di tornare in ospedale per capire cosa stesse accadendo. Lì, però, a sentire i suoi parenti, a disagio per la situazione di caos del reparto, avrebbe deciso di tornare a casa senza aver svolto alcun esame. La situazione, però, ha continuato a peggiorare: la donna, dunque, è stata costretta un’altra volta ancora a tornare in ospedale, dove, sottoposta ad un intervento a causa di un ematoma imponente, è morta. I carabinieri, ora, hanno sottoposto a sequestro la cartella clinica della donna.
Una situazione, quella del reparto di ostetricia, fortemente criticata dal segretario della Uil Fpl, Nuccio Azzarà, che dopo l'indagine shock delle scorse settimane aveva chiesto un'azione di messa in sicurezza del reparto, a tutela di pazienti e personale. Azzarà, infatti, continua a stigmatizzare la «mancanza di sicurezza» di ostetricia, e denuncia che «le misure richieste non sono mai state prese». Il personale, commenta infatti, continua a lavorare «a ranghi ridotti», il tutto mentre i pazienti «rimangono inevitabilmente sospettosi».
Una situazione di collasso aggravata dall'ormai evidente smantellamento di ostetricia sia nella Piana sia a Locri, dove il reparto va avanti, spiega Azzarà, solo grazie all'impegno costante «del dottor Macrì». «Urliamo continuamente per evidenziare questa situazione di pericolo - conclude - ma non succede niente».
L'inchiesta "Mala Sanitas" aveva scoperchiato una situazione inquietante: due neonati morti, un procurato aborto, lesioni irreversibili per un altro bambino, lacerazioni e traumi. Con queste pesantissime accuse undici sanitari dell'Ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria sono finiti nel mirino delle fiamme gialle del comando provinciale di Reggio, su richiesta della Procura della Repubblica reggina. Dall’indagine emerge un vero e proprio sistema messo in piedi da alcuni sanitari, in base al quale di fronte ad un errore o ad un imprevisto, «bisogna “prendere la cartella (…) e chiuderla nell’armadio”, al fine di “confezionarla ad arte” sia per fini di “copertura della responsabilità” sia anche a titolo meramente “preventivo e cautelativo” al fine addirittura di “aggiustare tutto a monte” per evitare anche solo la possibile insorgenza di un procedimento giudiziario a carico di un medico e/o di personale sanitario».
A far partire le indagini alcune telefonate captate dalla Dda di Reggio, inerenti un’indagine sulla cosca di ‘ndrangheta dei De Stefano. Tutto parte da una conversazione su un’utenza intestata all’azienda ospedaliera e in uso al dottore Alessandro Tripodi. Da quella telefonata, infatti, «emergeva la consumazione di numerosi episodi di malasanità» che hanno portato ad una diversa indagine, della Procura ordinaria, che attraverso intercettazioni, acquisizione di documenti e interrogatori ha scoperchiato un sistema che avrebbe portato alla morte di due bimbi appena nati, l’invalidità al 100% di un altro bambino, traumi e crisi epilettiche e miocloniche di una donna «colpevole di dovere partorire», il procurato aborto di una donna non consenziente nonché le lacerazioni ad altre pazienti. Ma «tutto questo non conta», perché importa solo, per dirla con le parole di Tripodi, «pararsi il culo». E per farlo, il personale sanitario avrebbe falsificato le cartelle cliniche, il tutto, appuntano esterrefatti gli inquirenti, compiuto con «assoluta freddezza e indifferenza» verso la vita, proprio da parte di chi, per scelta e vincolato da un giuramento, dovrebbe tutelarla.