
Si tratta della malattia per cui “ci vogliono tre anni per uscirne” e la scrittura rappresenta la modalità per uscirne prima, per rimettere a posto i puzzle impazziti dell’esistenza come lo sono le cellule del proprio corpo che, in un momento sconosciuto e preciso, incominciano a crescere e moltiplicarsi in modo anarchico e autosabotatore.
Il tumore, secondo gli scienziati, dice Lea, viene per caso, perché non sanno spiegarsi il motivo, ma le ferree leggi della scienza per cui una teoria deve essere dimostrabile, si incrinano lasciando penetrare il salvifico dubbio: e se nulla avvenisse per caso? Ad esplicitarlo una dottoressa che domanda a Lea se nei mesi precedenti la diagnosi ha avuto qualche grosso dolore. La donna, sposata con figli, scrive e recita i suoi monologhi, ma ora che il medico si è sbagliato, che non è solo una ghiandola, vede scoppiare la grande bolla che racchiude la propria vita, ed è costretta ad esaminarla con un’attenzione diversa. Racchiude l’eterna corsa a fare le stesse cose, l’impossibilità di staccarsi insieme alla fuga da alcune persone, due facce della stessa medaglia. Ricorda il rapporto conflittuale con la madre, lo sforzo per non diventare come lei. L’ansia detestata che aveva divorato la prima, segue come ombra la seconda, che si concede di riconoscerla quando crede di aver scoperto l’antidoto: scrivere storie a ritmo incalzante, portarle in scena. Esorcismo vano, perché l’ansia creativa è divenuta distruttiva.

“Forse sentendo troppo ci si consuma, ci si ammala, si muore…. e se muoio? chiede a Shlomo, suo marito, “se muori è il meno.”. E’ la risposta vera e terribile che l’uomo le fornisce. Spesso cercando il bandolo dell’intricata matassa che innesca la miccia autodistruttiva, al di là di agenti esterni, quali inquinamento, eredità genetica, fattori organici ben precisi, quando non si è fumato, si è mangiato in modo sano, cercato uno stile di vita impeccabile, si fa strada l’ipotesi ancora non suffragata dalla scienza, del conflitto vissuto nel profondo, non riconosciuto o evitato per troppo tempo.
Nella vita di Lea c’è una spina nella carne che punge da sempre. Non è solo l’ansia che le impedisce di vivere con un respiro lento e libero le sue giornate, ma il rapporto conflittuale con il suo uomo. La freddezza che fa male in un punto preciso del corpo. I lunghi crudeli silenzi dopo un litigio che si trasformano in “morsa attorno al cuore, un’asfissia, una tortuna…”. Eppure non lo lascia, dipendente da un vincolo d’amore che sano non può dirsi, almeno fintantoché la malattia non capovolge le prospettive.
Tra le pagine del libro non si cela il peso dell’angoscia, anche quando racconta della chemio senza sconti, piuttosto Daria Bignardi con leggerezza e ironia, esprime lo stupore e la curiosità di chi entra a far parte, suo malgrado, di un universo parallelo popolato da persone che mai avrebbe potuto incontrare. Dal simpatico chimico che le inietta il liquido della scintigrafia, la chirurga plastica che la fa ridere quando i dolori dell’operazione mordono più forte, alla dott. antroposofa che le dona un insegnamento prezioso: non si devono mai prendere decisioni in tempo di guerra!
Perché quello vissuto da Lea è un tempo di guerra. Il giovane Luca le porta la freschezza scanzonata dell’età, la complicità di chi condivide l’esperienza della malattia, la possibilità di innamorarsi e la saggezza del discernimento. “Storia della mia ansia” è paradigma delle tante difficili battaglie, non necessariamente oncologiche, che ciascuno di noi si trova a condurre. Ogni caduta, ogni ferita, ha qualcosa da insegnare, anche se ci vuole tempo. Sul campo di battaglia si incontra il nemico e la sorpresa più grande è quando si scopre che ha il tuo stesso volto e che avevi lasciato dietro le spalle, dimenticandola, la gioia della quotidianità. La bravura di uno scrittore sta nel narrare la vita trasfigurandola in modo che il lettore possa ritrovarsi, consentendogli una lettura simbolica e aperta. Poco importa se Luca sia esistito davvero, che muoia nel romanzo, invece è importante, perché è quella parte di ciascuno, che una volta incontrata e finalmente amata senza riserve, deve morire per darci ancora vita.

Il tumore, secondo gli scienziati, dice Lea, viene per caso, perché non sanno spiegarsi il motivo, ma le ferree leggi della scienza per cui una teoria deve essere dimostrabile, si incrinano lasciando penetrare il salvifico dubbio: e se nulla avvenisse per caso? Ad esplicitarlo una dottoressa che domanda a Lea se nei mesi precedenti la diagnosi ha avuto qualche grosso dolore. La donna, sposata con figli, scrive e recita i suoi monologhi, ma ora che il medico si è sbagliato, che non è solo una ghiandola, vede scoppiare la grande bolla che racchiude la propria vita, ed è costretta ad esaminarla con un’attenzione diversa. Racchiude l’eterna corsa a fare le stesse cose, l’impossibilità di staccarsi insieme alla fuga da alcune persone, due facce della stessa medaglia. Ricorda il rapporto conflittuale con la madre, lo sforzo per non diventare come lei. L’ansia detestata che aveva divorato la prima, segue come ombra la seconda, che si concede di riconoscerla quando crede di aver scoperto l’antidoto: scrivere storie a ritmo incalzante, portarle in scena. Esorcismo vano, perché l’ansia creativa è divenuta distruttiva.

“Forse sentendo troppo ci si consuma, ci si ammala, si muore…. e se muoio? chiede a Shlomo, suo marito, “se muori è il meno.”. E’ la risposta vera e terribile che l’uomo le fornisce. Spesso cercando il bandolo dell’intricata matassa che innesca la miccia autodistruttiva, al di là di agenti esterni, quali inquinamento, eredità genetica, fattori organici ben precisi, quando non si è fumato, si è mangiato in modo sano, cercato uno stile di vita impeccabile, si fa strada l’ipotesi ancora non suffragata dalla scienza, del conflitto vissuto nel profondo, non riconosciuto o evitato per troppo tempo.
Nella vita di Lea c’è una spina nella carne che punge da sempre. Non è solo l’ansia che le impedisce di vivere con un respiro lento e libero le sue giornate, ma il rapporto conflittuale con il suo uomo. La freddezza che fa male in un punto preciso del corpo. I lunghi crudeli silenzi dopo un litigio che si trasformano in “morsa attorno al cuore, un’asfissia, una tortuna…”. Eppure non lo lascia, dipendente da un vincolo d’amore che sano non può dirsi, almeno fintantoché la malattia non capovolge le prospettive.
Tra le pagine del libro non si cela il peso dell’angoscia, anche quando racconta della chemio senza sconti, piuttosto Daria Bignardi con leggerezza e ironia, esprime lo stupore e la curiosità di chi entra a far parte, suo malgrado, di un universo parallelo popolato da persone che mai avrebbe potuto incontrare. Dal simpatico chimico che le inietta il liquido della scintigrafia, la chirurga plastica che la fa ridere quando i dolori dell’operazione mordono più forte, alla dott. antroposofa che le dona un insegnamento prezioso: non si devono mai prendere decisioni in tempo di guerra!
Perché quello vissuto da Lea è un tempo di guerra. Il giovane Luca le porta la freschezza scanzonata dell’età, la complicità di chi condivide l’esperienza della malattia, la possibilità di innamorarsi e la saggezza del discernimento. “Storia della mia ansia” è paradigma delle tante difficili battaglie, non necessariamente oncologiche, che ciascuno di noi si trova a condurre. Ogni caduta, ogni ferita, ha qualcosa da insegnare, anche se ci vuole tempo. Sul campo di battaglia si incontra il nemico e la sorpresa più grande è quando si scopre che ha il tuo stesso volto e che avevi lasciato dietro le spalle, dimenticandola, la gioia della quotidianità. La bravura di uno scrittore sta nel narrare la vita trasfigurandola in modo che il lettore possa ritrovarsi, consentendogli una lettura simbolica e aperta. Poco importa se Luca sia esistito davvero, che muoia nel romanzo, invece è importante, perché è quella parte di ciascuno, che una volta incontrata e finalmente amata senza riserve, deve morire per darci ancora vita.
