
Di maggio, all’improvviso, gli slogan che da mesi risuonavano nei cortei snodati in tutte le città italiane, “studenti e operai uniti nella lotta”, non sembravano più auspici ma fatti compiuti, realizzati nell’occupazione delle università, con la Sorbona a guidare tutto, e delle fabbriche, i grandi stabilimenti Peugeot e Renault della cintura intorno la capitale.
Era una rivoluzione moderna, un fiume nel quale confluivano le correnti classiche della militanza leninista e l’onda liberatoria montata ovunque negli anni 60. Le bandiere rosse sventolavano a fianco di quelle rosse e nere dell’anarchia. Gli slogan discendevano più dalla swinging London e dalla Haight-Ashbury che dal repertorio classico del movimento operaio. Esortavano a “essere realisti chiedendo l’impossibile”. Proponevano di affidare il “potere all’immaginazione”. Nell’assemblea permanente che per settimane proseguì senza soste nello storico teatro nazionale Odeon occupato, sfilavano intellettuali, registi, operai, studenti, semplici passanti, militanti accorsi da molti Paesi d’Europa Italia inclusa.
Succedeva nel Paese che vantava uno dei partiti comunisti più torvi, burocratici e chiusi dell’Occidente, roba che al confronto le Botteghe oscure italiane sembravano un luminoso modello di apertura libertaria. Spiazzati i dirigenti del Pcf e quelli del sindacato, la Cgt irrisero, minimizzarono, tentarono di soffocare sul nascere, quindi rincorsero affannati, alla fine collaborarono nel soffocare.
La scintilla era stata davvero minima: l’occupazione della Sorbonne da parte di qualche centinaio di studenti. Fino a quel momento il cuore di un movimento che segnava il passo a paragone di quanto succedeva in altri Paesi, in Italia o nella Germania occidentale, era stata l’università di Nanterre, dove era nato il Movimento 22 marzo, spontaneista, anarchico, situazionista, con il tedesco Daniel Cohn- Bendit tra i leader più conosciuti. Il giorno prima, il 2 maggio, il rettore di Nanterre aveva sospeso i corsi dopo una giornata “anti- imperialista” e gli studenti si erano spostati alla Sorbonne per un seminario. L’occupazione, una faccenda quasi simbolica, era stata decisa alla notizia che il gruppo neofascista Occident preparava un attacco. La stessa notizia aveva convinto il rettore a far intervenire la polizia per sgombrare gli occupanti.
Ma la Francia del 1968 era un barile di polvere pronto a esplodere. Il benessere era aumentato lungo tutto il decennio, le divisioni sociali erano rimaste rigide. L’ascensore era fermo, le aspettative soprattutto dei giovani operai disattese in partenza. Il giovanilismo libertario spopolava come ovunque in occidente, ma l’autoritarismo e il conservatorismo non avevano nulla da invidiare a quelli italiani. Il generale aveva chiuso la ferita algerina e rilanciato un’economia stentata, ma dopo dieci anni di gollismo l’autoritarismo di De Gaulle era avvertito come soffocante non solo dai giovani ribelli.
Bastava una scintilla, e lo sgombro della Sorbonne si prestò all’occasione. Le centinaia di studenti sgombrati diventarono rapidamente migliaia, gli scontri durarono ore. Con le barricate i francesi avevano un’antica dimestichezza. La sera del 3 maggio furono erette per la prima volta nelle strade del Quartiere Latino. Tra gli arrestati di quel giorno di furono Cohn- Bendit, il segretario del sindacato studentesco Unef Alain Sauvageot, il leader trotskista Alain Krivine.
Senza la repressione forse non sarebbe successo niente. Non quella volta. Non in maggio. Invece la polizia fece il pieno di arresti, prolungando buona parte dei fermi del 3 maggio. Il rettore di Nanterre convocò con severo sussiego di fronte a una commissione disciplinare Cohn Bendit. Si presentò accompagnato da una squadraccia di docenti da serata di gala per l’assegnazione dei Nobel: Paul Ricouer, Henry Lefebvre, Alain Touraine. Il sindacato dei professori, guidato da Alain Geismar, solidarizzò. La Cgt no. Non voleva avere nulla a che spartire con i “gauchistes”, versione francofona dello sprezzante “gruppettari” adoperato dal Pci in Italia.
Nel Quartiere Latino i manifestanti solidarizzarono a modo loro: con nuove barricate, nuovi scontri, con altre centinaia di arresti e di feriti. Nulla a confronto di quel che sarebbe successo qualche giorno dopo, nella notte tra il 10 e l’ 11 maggio, la prima “Notte delle Barricate”. Ne furono erette a decine, su tutta la Rive Gauche. I Crs, Compagnie republicaine de sécurité. versione tosta della Celere italiana, le attaccarono alle 2 di notte. L’ultima fu espugnata dopo le 5 del mattino. Con oltre cento auto bruciate e l’intero quartiere disselciato, con centinaia di feriti tra i Crs e tra gli studenti era già uno scenario quasi da guerra.
Invece, come recitava uno slogan cadenzato dagli studenti che sarebbe poi risuonato per anni e anni anche in Italia sino a diventare un diffuso segnale di riconoscimento ( Ce n’est qu’un début, continuons le combat), non era che l’inizio. Il sindacato pressato da un’opinione pubblica dalla parte degli studenti stavolta proclamò uno sciopero generale burocratico e farlocco: appena quattro ore, il 13 maggio, giusto per togliersi la rogna di torno il più rapidamente possibile. Il generale- presidente, in visita ufficiale all’estero, palesò il suo disprezzo evitando di tornare in patria. Il suo premier, Georges Pompidou, ordinò la riapertura dell’università eliminando i presidi della polizia.
Poteva finire lì. Invece, dopo un corteo enorme e pacifico per le vie di Parigi, mezzo milione di persone, raddoppiato come d’abitudine nelle stime della Cgt, gli operai rifiutarono di tornare al lavoro. Nei giorni seguenti, senza alcuna proclamazione da parte della Cgt, lo sciopero si allargò a tutta la Francia e a tutte le categorie, sino a diventare il più grande sciopero generale spontaneo della storia. Le principali fabbriche furono occupate. Il 20 maggio erano in sciopero dieci milioni di francesi. La mobilitazione aveva superato i livelli del 1936.
Il giorno prima, 19 maggio, De Gaulle, che nel frattempo si era deciso a prendere sul serio la situazione, aveva pronunciato di fronte al consiglio dei ministri una battutaccia da caserma, subito notificata al colto e all’inclita dal ministro dell’Informazione Gorse, destinata a far divampare ulteriormente l’incendio: ' la réforme oui, la chienlit non'. La parola ' chienlit' non ha equivalente in italiano: sta per casino ma con un carico da 11 di volgarità in più. Nei giorni seguenti Cohn- Bendit, l’ ' ebreo tedesco' fu espulso dalla Francia. Rientrato clandestinamente fu espulso di nuovo. Il 24 maggio De Gaulle si rivolse alla nazione con discorso televisivo in cui proponeva un referendum di fatto sulla sua permanenza al potere. Il messaggio non era ancora e già le prime barricate erano stare costruite, prima intorno alla Bastiglia, poi nel solito Quartiere Latino. La seconda ' notte delle barricate' fu ancora più violenta della precedente, con due morti accertati.
Il 27 maggio a Grenelle sindacati, aziende e governo firmarono accordi che avrebbero dovuto mettere fine alla rivolta. Aumenti salariali sostanziosi, del 35%. Metà giornata di sciopero pagata. Impegni per una rapida riduzione dell’orario di lavoro. Nel pomeriggio il segretario della Cgt Georges Séguy portò il testo allo stabilimento Renault di Billancourt, occupato, per sottoporlo al voto dell’assembela operaia. L’accordo fu respinto. Gli scioperi e le occupazioni proseguirono.
Due giorni dopo De Gaulle fu tentato davvero, come ammise lui stesso in seguito dalla resa e dalle dimissioni. Poi ci ripensò. Scomparve per alcune ore, facendo poi sapere di essersi recato a Baden Baden, dal generale Massu, uno degli ufficiali che avevano imposto il suo ritorno al potere ma anche uno dei più vicini alle aree golpiste ai tempi della guerra d’Algeria. L’incontro tra i due generali, dopo anni di ostilità reciproca, era un messagio preciso e una minaccia ben delineata.
Il 30 maggio De Gaulle parlò di nuovo alla nazione, sfidò le opposizioni, convocò nuove elezioni. Subito dopo la fine del discorso centinaia di migliaia di suoi sostenitori sfilarono a a Parigi guidati dallo scrittore André Malraux. Era il segnale di una controffensiva a cui il Pcf si adeguò rapidamente, sia per paura del golpe, sia perché temeva un movimento di cui non aveva mai ripreso davvero le redini.
Nei giorni seguenti gli accordi furono fatti accettare dalle assemblee operaie anche a colpi di brogli. I Crs sgombrarono le fabbriche che rinunciavano all’occupazione anche a costo di scontri violentissimi il 7 e l’ 11 giugno. La Sorbonne fu sgombrata il 16 giugno. De Gaulle vinse le elezioni tra il 24 e il 30 giugno. Per chiudere il mese in bellezza, il 31 furono licenziati 102 giornalisti della Ortf, l’emittente radiotelevisiva di Stato che era stata occupata nei giorni della rivolta. In autunno, per ogni evenienza, il governo eliminò il pavé dalle strade del Quartiere Latino sostituendolo con il più sicuro cemento.
Ma la risposta gaullista a quanto di più vicino a una rivoluzione ci sia stato nell’occidente dal dopoguerra in poi non fu solo repressiva. Il governo varò rapidamente una quantità di riforme che andavano di fatto incontro alle proteste diffuse che avevano innescato la rivolta. In tutta Europa lo spettro del maggio continuò a spaventare il potere negli anni successivi. Coincidenza volle che esattamente un anno più tardi, alla Fiat Mirafiori di Torino, la più grande fabbrica italiana partisse a sorpresa uno sciopero selvaggio nell’officina 54. La mobilitazione alla Fiat si allargò, sfuggì di mano ai sindacati, proseguì fino a luglio, conclusa da scontri durissimi con la polizia. Cominciava un ' maggio italiano' destinato a durare dieci anni.