L’ANALISI. Salone del libro di Torino: la Calabria può fare (molto) di più

L’ANALISI. Salone del libro di Torino: la Calabria può fare (molto) di più
Calabria Torino
La Calabria al Salone del libro di Torino effettivamente s’è sforzata di essere “diversa”, di presentarsi meno frammentata, meno provinciale. L’esempio, ha riguardato la presenza importante di Edgar Morin, eminente intellettuale francese, emblema, per origini e scelte di vita, di un modo di intendere la società attuale nel senso della multiculturalità e dell’ibridazione. Tuttavia, a parte il filosofo ultranovantenne, forse è il caso di riesaminare, a posteriori, la presenza calabrese alla kermesse e riflettere sull’appuntamento che meritava senz’altro una preparazione meno affrettata e un’interpretazione più approfondita delle dinamiche che si nascondano attorno al prodotto “libro”.

Il Salone torinese difatti, non è una fiera antiquaria, non è un posto per bibliofili amanti di pergamene e di codici miniati, è il luogo dove regnano sovrani letteratura e nuovi linguaggi e dove trionfa la cultura dei più non quella dei pochi. I quattro filosofi elevati ad icone della “calabresità delle origini” eretti a pale d’altare dei tempi andati, senza alcuna storicizzazione immediata ed attraente, sono sembrati segno di una visione anacronistica della manifestazione, un tirare fuori i cimeli di famiglia in una festa di fine liceo. E così è sembrato che il passo in avanti compiuto con il sociologo francese, sia stato repentinamente negato da una visione controcorrente manifestata soprattutto nelle presentazioni successive riguardanti autori del passato privati dalle opportune contestualizzazioni. La Sardegna, a solo titolo di esempio ha pur richiamato Grazia Deledda, ma lo ha fatto, riscuotendo grande successo, per il tramite di Marcello Fois e di Michela Murgia.

Per fortuna è stata invitata la sedicenne Miriam Giorgi, con la sua opera prima “Angels”, a rappresentare freschezza e novità di intenti, altrimenti, vista da fuori, la presenza calabrese al Salone poteva fornire l’occasione per l’ostentazione di una cultura fondata sui filosofi antichi e sull’interpretazione dei manoscritti cistercensi, senza alcun fertile legame con la realtà contemporanea. E cosa pensare dello scritto contenente ritratti di ben undici eroine calabresi dal titolo assai modaiolo “L’ape furibonda”? Solo il titolo risente del richiamo ad una femminilità anticorformista, quella della “pazza della porta accanto” Alda Merini, per intenderci. Ma è solo la copertina, per il resto, l’intero scritto è teso all’esaltazione iconografica di una femminilità datata e superata. E magari attorno a questa “ape” letteraria si fosse affaccendata una giovanissima “Youtuber” a presentarne il testo al pubblico torinese, o si fosse impegnata una letterata calabrese, forse l’operazione culturale sarebbe stata coerente con un’immagine della regione complice delle donne, e invece, la protettrice e sostenitrice dell’opera è stata la leggiadra Isabella Bossi Fedrigotti, eminente intellettuale, nata a Rovereto, non quassud e nemmeno qua-al-centro, rappresentante di una letteratura quieta e raffinata, colta e domestica, non certo esponente di una letteratura militante, come quella che servirebbe in un territorio come il nostro, disseminato da fratture sociali.

Mi chiedo se gli organizzatori della presenza regionale alla kermesse abbiano pensato ai lettori, a quale pubblico ideale rivolgere l’agiografia delle undici eroine e soprattutto se le sorti culturali della regione “schiacciata” dalla cronaca debbano affidarsi, a figure nostalgiche ed a trame, non letterarie ma biografiche, a raffinatissime figure che per le attuali donne calabresi valgono quanto un delicato cammeo lasciato in eredità da un’amata ava, in un prezioso scrigno cesellato da un’artigiano dei primi del ‘900.

A fronte di tanto passatismo, un vero plauso, di cuore, ai veri scrittori, quelli autentici, quelli che si sono auto presentati, magari l’uno con l’altro, che si sono avvicendati nella confusione a darsi appuntamento fuori dal Lingotto, per non perdere il gusto di incontrare l’amico o anche solo per non perdere l’occasione di un’autentica presenza culturale alla manifestazione libresca più popolare d’Italia.

Che dire? Agli scrittori calabresi viventi, da parte dell’istituzione Regione Calabria è stato dato pochissimo spazio, mentre proprio questi ultimi meritavano di essere celebrati. E celebrati sul serio, ponendoli in primissimo piano, con tanto di apparato critico e di filologi accademici a fare da corona in ogni manifestazione. In questo momento esiste una letteratura di impegno civile, proprio messa in opera da autori che credono fermamente e senza retorica, all’importanza della parola come strumento per ripensare alla nostra regione, per descriverne con coraggio vizi e virtù e per fornire uno slancio ideale verso un rinnovamento del costume. È una letteratura che andrebbe d’accordo con la visione di Nicola La Gioia, direttore del Salone, anche lui dotato di entusiasmo “sudicio” made in puglia. È una letteratura che spazza via i resoconti cronachistici, che evita come la peste il giornalismo letterario, ma affonda la lama dell’analisi all’interno, nei sentimenti e nell’oscurità del cuore di ogni singolo abitante della nostra terra, per narrare rabbia e dolore, per capire i sentimenti che animano le azioni e per sommuovere i germi vitali di un’etica, forse utopistica, irraggiungibile, che tuttavia esiste, un po’ sepolta da macerie di retorica. È una letteratura che non si presenta in maniera nostalgica con i bozzetti dell’emigrante appuntati sui risvolti delle copertine, né con la predilezione verso il dialetto a pedestre imitazione del sommo Camilleri, è piuttosto un narrare ripercorrendo la storia e i sentimenti con l’intenzione di capire e di trasmettere valori, è quel narrare che il premio strega europeo Fernando Aramburu, sta manifestando nel romanzo “Patria” incentrato sul superamento delle ferite del popolo basco, minoritario e dalle origini incerte, oscure, proprio come il popolo calabrese.