«Quando sono nata, la rua era ancora più uguale che diversa dal passato. La casa di nonno Giovanni e nonna Cilla era la stessa abitata da bisnonno Santo e bisnonna Francesca, non diversa da quella in cui erano vissuti i trisavoli Saverio e Bruna. Identico a quello di suo padre e suo nonno, era il lavoro nei campi di mio nonno Giovanni e mia nonna metteva la cenere (la più profumata dai rami di fico) sui panni da lavare come sua madre e sua suocera. La luce e l’acqua in casa, le bombole di gas per cucinare – quando per la prima volta mia madre non dovette accendere la legna, si sentì una regina – e la Lambretta di mio padre erano i segni di un’incipiente modernità, che rendeva la fatica dei giorni meno pesante ma che non cambiava ancora la visione del mondo. Ci sarebbero voluti ancora un po’ di anni per l’arrivo della tv e altri ancora per quello del telefono. (…) Poi fu un attimo e il prete non disse più messa rivolto all’altare ma iniziò a celebrare guardando i fedeli, e mio zio parroco venne a trovarci non più in talare ma in clergyman e le ragazze non portarono più il velo in chiesa. (…) Passarono pochi anni e non si regalarono più fazzolettini ricamati a mano né tantomeno sottovesti; le calze col relativo reggicalze cedettero il posto ai collant. Nella mia vita di ragazza, tanto cambiò quando indossai il mio primo pantalone e, per la prima volta, non ebbi freddo alle gambe.»
«La mia è stata la generazione di calabresi che ha vissuto il passaggio se non dalla povertà, certo dalla ristrettezza – ancora quand’ero ragazza, nella maggior parte delle case non si compravano prosciutto o banane, ovvero beni considerati di lusso – all’agiatezza, per quanto modesta. Un progresso, però, senza reale sviluppo economico, pagato, anche, con la corruzione, le connivenze malavitose, la continuazione dell’emigrazione, non più manuale, bensì intellettuale, e con lo sfregio alla paradisiaca bellezza naturale. Spariti i canneti, le brucare, la sabbia, una colata di cemento ha occupato il bagnasciuga prima incrinando e poi via via distruggendo un’armonia secolare, anche se sempre ho continuato a raccogliere conchiglie, dimenticando, almeno in quei momenti, ogni bruttura e respirando bellezza eterna.»
«Ho attraversato un’epoca di trasformazioni profonde in cui la quotidianità delle donne si modificava con una progressione inattesa. (…) La mia è stata la prima generazione di donne capace, in massa, di autodeterminazione. Almeno così dicevano i sacri testi del femminismo che leggevo, avidamente, intorno ai venti anni: soprattutto francesi, inglesi e americani. Nella mia piccola esperienza, conoscevo qualche compagna che, dopo la media, non fu più mandata a scuola (e ancora, anche se poi ha avuto una vita familiare piena, lo rimpiange) e qualche moglie cui il marito contava anche gli spiccioli e, magari, era generoso di botte, nel doppio senso di schiaffi e di vino. Ma le ave di cui mi raccontavano, le mie nonne, le mie zie – una sarebbe diventata mia suocera – e soprattutto mia madre, avevano vissuto e/o vivevano, nei limiti del loro tempo, della situazione economica, delle esigenze della famiglia, come dominae: signore di loro stesse. Non è il concetto di libertà a segnare un discrimine tra le mie ave e me – come da qualche parte deve aver scritto il vecchio Marx, l’uomo è libero in condizioni determinate – ma la scuola. Ho avuto il privilegio di lunghi anni di studio, anzi di poter studiare sempre. E non è una differenza che riguarda solo le ave, ma anche gli avi. Sono stata la prima della mia famiglia (allargata) a laurearmi. Non la prima donna, la prima in assoluto.»
Conchiglie – Tra la Calabria e Nisida: memorie di una ragazza anni Cinquanta, di Maria Franco, edito da Guida (copertina di Cecilia Latella) testimonia le profonde trasformazioni di cui sono state protagoniste le donne del Sud che, nate negli anni Cinquanta in una realtà ancora contadina e periferica rispetto al mondo, hanno poi intrecciato le loro vite con le trasformazioni epocali che hanno investito tutto il paese e, particolarmente, quello che la Beauvoir definì il secondo sesso. La microstoria diventa così parte di un cambiamento fissato «in date e leggi importanti: la scuola media unificata, il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la legalizzazione dell’aborto, l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore.»
Quest'opera della Franco, e su questo aspetto dovrà tornarsi, mette al centro, sia pure partendo dalla propria esperienza, le trasformazioni profonde che hanno investito la totalità del Mezzogiorno nel Secondo Dopoguerra. Lo sottolineo perchè non sono molti i lavori di narrativa che hanno guardato a un Mezzogiorno che s'è radicalmente modificato. E' invece vero che il Sud è stato e viene descritto più come stasi, realtà estranea al divenire storico perché incapace di produrla anziché come protagonista di una storia di modificazioni, certo insufficienti; ma straordinarie. Quindi, come una realtà capace di fare storia.
Il racconto si svolge sul filo della memoria, mettendo insieme i due luoghi che costituiscono la vita della Franco. Da una parte il carcere minorile dove ha insegnato per 35 anni e dove, anche dopo, ha continuato il suo laboratorio di Scrittura che le è valso di essere tra i vincitori dell’Italian Teacher Prize: «Nisida non è stata un lavoro, neppure una missione. Nisida è stata, semplicemente, tutto. Ho mangiato pane e Nisida. Ho respirato aria e Nisida. Mi sono portata i ragazzi in mente quando ho fatto la spesa, rifatto i letti, spolverato, andata fuori a cena. E continuo a portarmeli dentro, tutti.»
E dall’altro la Calabria: «Non ho mai smesso di essere calabrese, anzi reggina, anzi pellarota, anzi di quel triangolo di terra che sta tra la conca di Occhio e i due valloni dei Filici. Non c’è stato un attimo in cui non abbia vissuto della mia terra»
Sul filo della memoria – «La storia è cosa ben diversa dalla memoria. Ma non ci sarebbe storia senza memoria» – la Franco ripercorre alcuni momenti della sua formazione (il liceo Campanella; l’università a Messina con la lunga frequentazione dei prof Giuseppe Mantica e Rosario Villari e la ricerca postlaurea sulle doti nuziali nel Settecento; l’esperienza redazionale all’Unità napoletana nella fase in cui in quella città si forma un comitato di giornaliste) e dà ampio spazio alle vicende dei suoi nonni, contadini ed emigrati, espressione di una Calabria umile, laboriosa, onesta e, soprattutto, alla vita di nonne e bisnonne donne forti, faticatrici, creative, nei cui confronti si sente debitrice: «So di essere stata una nana sulle spalle dei giganti. So che le generazioni che mi hanno preceduta e molto meno di me hanno avuto, hanno costruito più di me. Più di loro ho vissuto un’epoca di transizione. Tutti sono transeunti nella vita, ma ci sono generazioni che vivono la loro transitorietà in un contesto di punti fermi, e altre, come la mia, che la vivono in un turbinio di modificazioni. Non vale come giustificazione morale, ma è un indice importante per una corretta analisi storica.»
*Maria Franco, Conchiglie – Tra la Calabria e Nisida: memorie di una ragazza anni Cinquanta, Guida editore (copertina di Cecilia Latella), pp.161; euro 14)