
Nella Calabria contadina, nonostante il proverbio contrario (pedi e testa cumbogghiati / e lu restu comu voliti, piede e testa coperti ed per il resto fate come volete) i piedi erano spesso senza protezione anche nella stagione invernale, con l’inevitabile complemento di geloni (ròsuli) che piagavano le estremità a giovani e vecchi.
D’estate era piacevole battere a piedi scalzi le strade vicinali polverose o i terreni in cui il bestiame spianava gli sterpi secchi (siccumi) tracciando percorsi arabescati immuni da spine: qualcuna ne rimaneva soprattutto quelle di forma sferica, basciapedi perché aderivano inesorabilmente al piede; occorreva fermarsi a staccarle come fa lo ‘Spinario’ bronzeo dei Musei Capitolini.
La spina al piede era un archetipo antropologico come testimonia il detto: no mi va a la scazza cu semina spini / ca si li cogghi a dimenticata, non vada scalzo chi semina spine (zizzanie e cose poco gradevoli) che prima o poi finirà per calpestarle e farci i conti anche lui.
A Condofuri si raccontava la storia di Ninuzzeddhu Mafrica, latitante durante il fascismo e tradito da un conoscente che lo segnalò ai militi mentre stava facendo il pediluvio in un’ansa dell’Amendolea; si sottrasse all’arresto scappando a piedi nudi e accumulandovi tutte le spine che aveva incontrato. Cercò poi lo spione e gli domandò di quale piede voleva essere azzoppato; e, intimatogli di alzarlo, glielo bersagliò. Poi era andato in carcere ed aveva fatto in tempo a diventare campione regionale nel gioco della dama.
Di solito si andava scalzi ( jri a la scazza ) durante la trebbiatura con gli animali da tiro, per evitare di scorticare il piano dell’aia, e durante la pigiatura dell’uva.
Essere sempre Pedi-pedi, andare a spasso, vagabondare e imbattersi sempre nelle stesse persone che finiscono per infastidirsene.
La parola rimanda al ‘basso topografico’ (a Vicovaro nel Lazio esisteva la Porta e capu, porta di accesso superiore alla città, e Porta e pe’, da cui si entra nella parte bassa) come nell’espressione ‘e pedi d’a nchianata’, essere agli inizi delle salita come Dante (‘quasi al cominciar de l’erta …’, Inf., I, 31) ma, più genericamente, essere agli inizi di una attività nonostante l’apparenza: ‘quandu ti pari chi finisti si a la ncuminsagghia, cumpagnu’, quando ti pare che hai finito sei appena agli inizi, compagno (I. Buttitta, La peddi nova).
Dal basso topografico deriva mpedicari, arrampicarsi, anche sugli specchi nelle discussioni, nonché mpodagnari in grecanico, iniziare l’aratura nelle parti basse di un fondo.
La parola ha un impiego botanico (deci pedi di livara, dieci piante di olivo, vinti pedi di bergamortari, venti piante di bergamotto) ma, metaforicamente, è riferibile al girovagare dell’uomo poco gradito nelle comunità sedentarie come quelle agricole: lu pedi chi troppu anda / o si ruppi o si stramanda, il piede che cammina troppo o si rompe o smarrisce la giusta via, Lu pedi chi troppu andau / o cadiu o struppicau/ e malanova a la casa portau, il piede che andrò troppo in giro o è caduto o è incespicato e ha fatto giungere cattive notizie a casa.
Suprapedi è il passo fondamentale della ‘tarantella’ e consiste nel saltellare al ritmo dell’organetto e del tamburello collocando, alternativamente e successivamente, i piedi l’uno sull’altro.
Il piede è elemento rilevante anche dal punto di vista erotico, un passaggio importante della confidenza corporea tra due persone di sesso opposto (toccarsi di nascosto i piedi sotto il tavolo, fare piedino ), un ‘conduttore’ di movimento assimilabile al morso della tarantola: Pedi cu pedi / tarantula veni, panza cu panza / lu beni nd’avanza, culu cu culu / facimu rumuru, Se tocchiamo piede con piede per l’emozione ci viene il tremore (tremulìziu) come quando ci morde la tarantola. Il catalogo proseguiva con l’adesione pancia a pancia che fa crescere la famiglia, ci avanza il bene, e si chiudeva con il darsi le terga tra maschio e femmina, la fine dell’amore che coincide con i il tempo dei rumori deretani.
I piedi lasciavano tracce, indizi per chi sapeva cercare: le pedate degli uomini e ‘i pisti’ degli animali; vitti lu lupu e va circandu li pisti, ha visto il lupo e va cercando le orme, le peste. Ergo sta perdendo tempo!
Li pisti, le orme, andavano specialmente seguite in caso di abigeato, dato che gli inseguitori avevano il vantaggio di camminare più velocemente degli animali derubati.
Alcune volte gli animali erano solo metafore degli uomini, come la ‘gurpi cirvinia’ (la volpe dal pelo fulvo) di Melito, una donna bionda (dal colore del cervo dunque donde l’aggettivo) che si muoveva con circospezione, ad inizio di domenica mattina, per andare a messa e osservare indisturbata i suoi amanti.
Ma le sue cautele non bastavano contro il poeta satirico cui le pedate mattutine della civettona sembrano simili al moto di coda della volpe che cancella con essa le sue stesse orme per disorientare i cacciatori:
La gurpi cirvina
Chi cu la cuda ssitterra li pedati
Sona la missa e ndi va la prima
Pi taliari li so nnamurati.