
Giovanni era un uomo grande e grosso, somigliante ad Amedeo Nazzari dei tempi belli, i baffi curati e gli occhi scuri e profondi. Lina, sua moglie, sembrava un’attrice, e tirava su i figlioli tra mille sacrifici. Era periodo di vacche magre: a Reggio Calabria, come in altre parti d’Italia, allora essere comunista significava davvero lottare. Giovanni era stato licenziato per questo motivo. Si era rifiutato di votare il candidato amico del padrone. La fabbrica era una delle poche in città. Avrebbe potuto dire che l’avrebbe votato, e poi nel segreto dell’urna fare ciò che gli pareva. Ma appunto essere comunisti allora era anche questo. Conservare ad ogni costo la dignità. Giovanni, con quella sua voce baritonale e quel portamento da antico cavaliere, credeva in Marx e in Togliatti, ma soprattutto credeva nel riscatto degli ultimi che lui immaginava dipendesse anche dal suo voto.
Stare senza lavoro con cinque figli a carico, arrangiandosi con prestazioni giornaliere, vedendo i quadernetti delle botteghe riempirsi di “pagherò”, è un carico difficile da sopportare. Ma Giovanni aveva le spalle larghe, e una smisurata fiducia nella vita. Infatti da poco era arrivata la svolta: a breve avrebbe preso servizio nelle acciaierie di Terni, e i problemi sarebbero stati superati.
Quella sera uscirono col cognato mentre il vento ululava, proteggendosi sotto un ombrello striminzito. Scherzavano sul mal di denti e sulla schedina. Quel quartiere pullulava di cazzoni ‘ndranghetisti o aspiranti tali, ma la loro famiglia si era sempre distinta per onestà e laboriosità. Senza però mai perdere la dignità. Entrando nel bar dove si giocava al Totocalcio un ometto, di quelli che ancora s’incontrano in questa terra disperata, venne involontariamente urtato da Giovanni, più alto di lui di due spanne. E iniziò a far storie, quelle storie schifosissime che dovrebbero farci vergognare di essere calabresi. Ti devi scusare, non sai chi sono le persone, e così via.
Il mal di denti tornò a infuriare. Giovanni cercò di liquidare la faccenda con una parola buona, ma quello niente. Cercava la lite. Giovanni lo invitò ripetutamente a smetterla. Alla fine i nervi saltarono e il tipetto se ne andò via, grondando odio. I due cognati si giocarono la schedina, poi Giovanni salutò e si avviò verso casa, tranquillamente.
Pioveva ancora, tuoni minacciosi e fulmini rendevano aspra la serata. Arrivato all’angolo per salire verso casa, Giovanni si sentì chiamare. Era l’ometto. Armato. Pistola in pugno e odio inspiegabile.
Giovanni scappò. Cinque colpi. Alla schiena. Cadde come una quercia. Come quella quercia di Pascoli. Lo soccorsero e le sue ultime parole furono “ho cinque figli”. La tragedia esplose come una diga crollata. Il dolore senza fine dell’ingiustizia. La mancanza di significato e di senso. Dio che muore in un padre innocente ucciso da una cultura depravata. Mille anni di violenza riassunti in cinque colpi di pistola. L’evoluzione umana che si blocca e chiede lumi ad un possibile creatore. Il Caos che prevale sull’ordine. Il Male che, come al solito, si esprime attraverso la banalità assoluta. Basta essere stupidi per sparare qualcuno che ti ha urtato al bar senza volerlo.
Fu strazio vero, furono lacrime e cuori spezzati e urla mute. Fu disperazione, abbandono, terrore e paura. Fu solitudine assoluta dell’uomo. Fu il silenzio, lacerante, di Dio.
L’ingiustizia si protrasse e infuriò ancora. Falsi testimoni, l’avvocato della famiglia colpita compiacente con la cosca, il giudice frettoloso di archiviare. Nella disgrazia gli sciacalli sguazzano. Soldi truffati ai poveri superstiti. Andò come andò. Cinque bambini orfani e una vedova. Nessuna giustizia, nessun risarcimento. Un articoletto nelle pagine interne del giornale. La sepoltura e tutti a casa.
Questa era ed è la parte peggiore di questa terra maledetta. Ingiustizia, mafia, corruzione. Oggi probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso. Oggi quell’ometto avrebbe preso l’ergastolo, come meritava. Siamo consapevoli, più maturi, più coraggiosi anche.
Ma il frutto di questo avvenimento indegno alla fine si è rivelato. Perché dai diamanti non nasce niente, come diceva il nostro vate genovese, ma dal letame nascono i fiori.
Ed i fiori sono che tutti i discendenti di Giovanni hanno, da sempre, repulsione e disgusto per mafia e delinquenza, per armi da fuoco e prepotenti, e per ogni attività umana che abbia come fine l’annichilimento degli altri e la sottomissione.
Quel maledetto 17 gennaio del 1959. Il vento ululava e la bufera si abbatteva sulla città. Moriva un uomo innocente, colpito dalla dannata e inutile violenza calabrese. E il futuro metteva i suoi semi buoni nel destino di ciascuna delle vittime. Liberaci dal Male, è l’unica preghiera che vale.
Di quell’uomo, Giovanni, conosco solo una vecchia foto in bianco e nero.