LE RECENSIONI DI MARIA FRANCO. Il Previtocciolo di don Luca Asprea

LE RECENSIONI DI MARIA FRANCO. Il Previtocciolo di don Luca Asprea
asprea   «Il mio paese è Oppido Mamertina. (…) Il paese, che oggi forma un immane aeroplano adagiato fra gli ulivi, è molto bello ed ha tutti gli enti pubblici (eccetto la prefettura), e tutti i conforti, secondo le esigenze moderne delle cittadine più progredite. Il paese della mia infanzia, invece, era l’espressione tragica del recente cataclisma, con tutte le derivanti miserie. Era diviso in luridi e piccoli quartieri.»

Nato il 24 maggio del 1928 Nuzzo entra in seminario a tredici anni. Ben quattro dopo aver cominciato a chiederlo insistentemente ai genitori, la madre bella e lavoratrice, il padre, tornato dall’America, dove «nella Società Onorata aveva occupato posti di autorità e responsabilità.» Ma già a cinque, aveva risposto di sì allo zio che, per prenderlo in giro, gli aveva chiesto se voleva farsi previtocciolo, ovvero se intendeva entrare in Seminario, ricevendo l’augurio della nonna: «Santo lume e santa perseveranza!»

Va a Messa tutte le domeniche: «È d’obbligo! c’insegnava la Mamma. E chi la perde deve scontare sette anni di Purgatorio, dove il fuoco è più forte di quello dell’inferno.» È «felicissimo di fare il sacrificio per Gesù» portando la corona di spine nella processione della Via Crucis. Dice le orazioni: «Erano decine di devozioni. Dopo ognuna di queste recitavo tre Pater, Ave e Gloria. Poi recitavo le tre Ave Maria alla Madonna degli Abitini (…). Dicevo tre Ave Maria anche alla Madonna della Porta di Santa Cristina e un Pater Ave Gloria a San Sebastiano dello stesso paese (…). Terminavo con tre Ave Maria alla Madonna della Catena di Vorijia, affinché guardasse dal pericolo degli sbirri me e tutta la mia famiglia e tutta l’umanità.» Recita «con tanto amore il rosario di requie per le Anime del Purgatorio», provando un vero e proprio dolore fisico «quando si arrivava al “requiescatti in pace!”»

Si commuove fino alle lacrime per i canti alla Madonna e gioisce sentendosi nel cuore lo sguardo della Vergine: «Sull’altare, in fondo alla cappella, troneggiava una Madonnina azzurra, un viso tutto candore: gli occhi buoni, soavi, non guardavano in Cielo… Ohé! giù guardavano, verso gli ultimi banchi.»

Vuole diventare sacerdote: «In quel tempo, o per volere di Dio, o per uno scherzo terribile della natura, o per un’ironia strana e crudele della vita, mi cresceva sempre più desiderio di farmi prete e di entrare in Seminario. E volevo entrare presto. E non riuscii mai a spiegarmi quel desiderio, quella passione, quella ossessione.»

La precoce vocazione non gli impedisce di farsi iniziare da Peppe Ballotta alla Società Onorata: «Dapprima risi vergognoso e timido per il fatto che un malandrino di quel calibro si degnasse d’insegnarmi cose misteriose, segrete, che mi avrebbero elevato alla sua stessa importanza. Poi ascoltai con disinvoltura. In seguito anche con fascino.» E, soprattutto, non gli impedisce di vivere una sfrenata vita erotica. Iniziato al sesso da una ragazza adolescente quando aveva cinque anni, le sue giornate, come quelle dei suoi compagni e compagne, è una continua, reciproca esplorazione dei rispettivi organi sessuali (al femminile per i bambini, la fiora, al maschile per le bambine, il palombello), un costante, illimitato fare all’amore.

«Le devozioni, le preghiere, la soddisfazione d’una giornata passata bene, le gioie e le bellezze della natura non riuscivano ad addormentare in me il gusto dell’amore, il rapimento della carne. E tutto mi richiamava a questa legge, questa tendenza invincibile, questo bisogno prepotente: il garofano che ficcavo all’occhiello, i bottoni che si infilavano nelle asole; le chiavi che penetravano nelle toppe; i turaccioli che soffocavano le bocche delle bottiglie e tutti gli oggetti che agivano in penetrazione. L’edera attaccata alle querce, o ai castagni, o ad altri alberi, mi dava la viva sensazione di una donna pazza d’amore, che strozzava con le sue braccia l’innamorato. La vite legata al palo mi svegliava il senso di dolce intimità, che ci può essere tra un uomo e una donna, quando son soli e si vogliono bene. (…) I fianchi pingui e sinuosi degli ulivi annosi, grossi e giganti; i bozzoli di essi, simili a floride mammelle; le loro braccia elevate al cielo in segno d’invocazione amorosa, mettendo in mostra le concavità ascellari, mi richiamavano la donna nuda che si offre desiosa, che invoca d’essere presa (…). Fra gli animali domestici non c’era giorno che non vedessi realizzare l’amore. I conigli impregnavano le loro femmine e pestavano le zampe anteriori con autorità da mariti. ( …). Il gallo, quanto invidiavo il gallo! Le galline a sua disposizione; ed anche le pollastre da primo uovo, belle, bianche, a fior di fave, rosse, nere-lucide, screziate, castane, bionde, ardite come bandiere! E il gallo le amava a giornata, dalla mattina alla sera, ora l’una ora l’altra. Ed era sempre gagliardo e spavaldo. O fortuna, nascere gallo! E nessuna gli diceva di no; e tutte si acquattavano e scansavano le piume dalla coda, per dare strada facile alla fiora di esso che entrava pistolettando. Il gallo aveva gli stessi desideri miei e li realizzava tutti, in ogni ora del giorno. La mattina, quando scappava fuori dal pollaio, sembrava che non avesse visto galline da cento anni e ne cavalcava quattro, cinque, sei, una dopo l’altra! E poi si guardava all’intorno regale e soddisfatto. Sì, un vero re, il gallo! Il vero re! Ah, essere gallo! E invidiavo la vita al gallo, e desideravo di essere gallo! Oltre ad avere tante femmine, non ci sarebbe stata paura d’inferno.»

È proprio la torrenziale, massiccia, carnale descrizione – per di più da parte di un don – della sessualità infantile, con alcune incursioni in quella adolescenziale, con le ragazze che prendono l’iniziativa in rapporti non lontani dalla pedofilia, che, dando al libro un’aurea fortemente scandalistica, decretò il grande successo de Il previtocciolo nel 1971, quando venne pubblicato da Feltrinelli (è stato poi riproposto da Pellegrini a partire dal 2003).

Il libro di don Luca Asprea – pseudonimo di Carmine Ragno, prima seminarista cattolico poi prete ortodosso – è, soprattutto nella prima parte, una girandola di atti erotici, che mi hanno più volte riportato in mente un termine del dialetto reggino: ’sdinga. Ti stingano i dolci troppo zuccherosi quando ne ingurgiti in quantità. Ti stingano anche le fette di limone che, per quanto ben condite di olio e sale, restano troppo acide quando ne mangi troppe.

Insomma: l’autore esagera. E, se il suo libro fosse solo una strabordante carrellata di sesso minorenne, vissuto in un mondo non solo precristiano, ma anche prepagano, non avrebbe molto da dire oggi, se non in sede documentaria.

Ma Il previtocciolo è molto di più. È una straordinaria autobiografia, sanguigna e poetica, sincera fino allo scorticarsi dell’anima, che esplora la società contadina calabrese del dopo terremoto del 1908; l’organigramma della ‘ndrangheta, mai così completamente raccontato, forse, in un’opera di narrativa; l’adesione di larghe fasce popolari al fascismo: con l’esaltazione del duce, il sogno di diventare più forti di inglesi e francesi, le adunate e gli esercizi ginnici in piena campagna e la compresenza, a scuola, di bambini e bambine: «Noi eravamo coraggiosi, noi italiani (io allora credevo che anche noi calabresi fossimo italiani; e credevo che lo fossimo sempre stati da che mondo è mondo!».

Un’autobiografia – scritta in una lingua dal fortissimo impatto visivo, in cui italiano e dialetto si intrecciano in perfetta unità – che fa luce sulla complessa, contraddittoria, frammentaria formazione di una personalità, tra estasi panica e crescente senso di colpa: «In vero, nessuno sapeva niente delle mie cose; o meglio, ciascuno conosceva i rapporti che aveva con me; ma nessuno sapeva i rapporti che avevo con gli altri.»

Notevolissime, un getto di luce sulla chiesa calabrese della prima metà del Novecento, le pagine sull’esperienza in Seminario: il fariseismo di prelati e seminaristi, l’ignoranza dei più, i legami con la ‘ndrangheta, la doppia e tripla vita di molti, ma anche la scoperta del latino e dei libri e la santità di alcuni, in particolare del vescovo di Reggio, monsignor Montalbetti ucciso ad Annà da un’incursione aerea nel gennaio del ’43. E l’aprirsi di una speranza: « … abbiamo nella provincia di Cosenza un altro rito, il rito greco-ortodosso… (…) I preti vestono la riarsa e il colbucco: sono un po’ buffi: portano anche la barba. I preti (…) si maritano!... »

*Il Previtocciolo, don Luca Asprea, Feltrinelli, prima edizione febbraio 1971.