LA CALABRIA e i PROVERBI. Abiti, monaci e ipocrisia

LA CALABRIA e i PROVERBI. Abiti, monaci e ipocrisia
abito             Àbitu non fa monacu e chirica non fa previti

Il proverbio considera l’aspetto esteriore, il saio (àbitu) per il clero regolare e la tonsura (chìrica) per il clero secolare (previti), non rilevante per i religiosi che devono avere purezza d’animo e non soltanto vesti adeguate: c’è una eco agostiniana (in interiore homine habitat veritas) o, se si vuole, giansenista.

Nella cultura popolare gli uomini di chiesa, oltre che ipocriti (amanu a Diu e fùttimu ‘o prossimu), sono anche pericolosi come i cani dei pecorai e, quindi, da tenere a distanza con il bastone: Previti, monaci e cani / porta sempri bastuni a li mani.

La diffidenza era giustificata perché il clero, per via della dimestichezza ingenerata dalle funzioni religiose o dalle attività collegate alla questua, aveva la possibilità di avvicinare le donne di casa e di insidiarle mentre i maschi erano al lavoro.

L’alternativa era o di riderci sopra (Quandu trovi lu monacu a la casa / a megghiu cosa ch’è pigghiala a risa) o di inseguire l’intruso che nel commodus discessus di qualche finestra posteriore e nella lestezza di gambe aveva qualche chance di salvezza; donde il proverbio nato dallo scambio di battute con un passante impiccione: <<Monacu perchì fui?>> <<Ognunu sapi li cazzi soi!>>

Meglio dunque che i frati stiano rinserrati  tra le mura del convento (Diu ti guardi ‘e acqua e vientu / e de monaci fora cummientu ) e che canalizzino, boccaccescamente, il loro interesse verso le consorelle degli ordini religiosi femminili con le quali ogni circonvoluzione erotica è ammessa: lu zi monacu sutt’a l’umbra / e la za monaca puru ‘ddhà / chi facivanu cuzzulatumbula (capriole) / e si potivanu struppià!.

In questo clima l’anticlericalismo si coniugava inesorabilmente con l’antifemminismo: verità di donna e carità di frati / suli di mbernu e nivuli d’a stati / sunnu tutti grandi cazzati.

        Una famosa quartina di canto popolare calabrese, giocando sull’ambiguità semantica tra soru/sorella e sora/suora, fa oscillare tra l’una e l’altra la fantasia erotica di un arciprete, disposto per la foia a strappare persino l’abito talare (rubetta):

Ni dissi l’arcipreviti alla soru-a

Chi ti facisti bella soru-a mia,

E si non fussi ca mi veni soru (… ca tu si na sora)

Sta cazza di rubetta la sciancaria

Le ampie frizioni tra popolo e clero registrate dal folclore non fanno venire meno la convinzione popolare che dal clero non è facile liberarsi:

Si nasci / lu previti pasci

Si ti mariti / lu previti mbiti

Si mori / lu previti godi.