di ANTONIO CALABRO' - Forse si trattava soltanto di una sentimento romantico, di una beata illusione giovanile, di un sogno accarezzato a lungo dopo del risveglio; o forse era soltanto la gioia di ritrovarsi fra simili, di sentirsi “appartenere”, di sfuggire la solitudine dell’utopia.
Forse, anzi probabilmente, era tutto sbagliato, era tentare di arginare il mare con uno scoglio, era credere nell’impossibile, confidare nei miracoli, nella levitazione della carne, nella incarnazione della volontà, nel volere della giustizia cosmica; era soltanto pensare che l’uomo fosse altro, oltre che la sua schiena rotta e il suo stomaco acquietato, era sognare il mondo migliore, il mondo mai esistito e che mai esisterà.
Sbagliato, era tutto sbagliato: pensare che le singole aspirazioni potessero educarsi a sciogliersi in un sogno collettivo; e pensare che tale educazione potesse esprimersi a cura di uno stato o di una nazione o di un partito. Confondere il genere umano con la categorie delle formiche o delle api, sottovalutare la tigre presente in ciascuno, illudersi che potessero esistere persone capaci di anteporre gli interessi di tutti ai propri, credere nel senso universale della giustizia. Grandi parole, grandi temi, stupidaggini.
Cosa è rimasto di quegli oceani di bandiere rosse e di quei pugni serrati levati al cielo a urlare libertà? Cosa è rimasto di quel senso per nulla pratico di pretendere un mondo migliore, e di volerlo subito ? Nulla, anzi, ancora peggio, macerie. Sono rimasti i nostalgici della gioventù, spesso patetici ma ancora più spesso depressi, con la mano ancora serrata a pugno, beffati dalla storia e dalla stagione del rampantismo politico; sono rimasti i suonatori di pifferi, bravi parolai incantatori, illusionisti di giovincelli con la voglia di menare le mani per il naturale moto di ribellione dei vent’anni, rivoluzionari sul palco e complici sottobanco. Sono rimasti i “compagni” con il posto nei consiglio d’amministrazione delle società pubblica; sono rimasti i saggi marxisti in cerca di voti ovunque, al pari degli altri; sono rimasti i pugni chiusi dei dissenzienti autentici, senza più voce, senza più forza, senza più sogni, senza più rappresentanza autentica, senza più futuro.
Perché il futuro appartiene ai concreti, ai ragionieri della politica, alle marionette delle finanza, ai marpioni degli ideali; il futuro è dei senza sogni, è dei senza speranze, è di chi si libera da questi orpelli d’umanità e rincorre la realtà, una realtà feroce, di uomini belve che agitano la coda di fronte al pasto nudo. L’uomo è un panino al prosciutto, sosteneva un ubriacone statunitense: servito sulla mensa del potere, divorato intero con tutte le sue follie, le sue aspirazioni, i suoi amori e le sue velleità.
La piazza è vuota, ed il palco che la guidava è soltanto una giostra di periferia, cadente, con la musica stonata di un disco piegato dalla storia, le bandiere sono foulard di Hermes, i pugni chiusi stretti attorno ai flute di Cordon Rouge, l’unica nota di rosso apprezzata. La piazza è battuta, sconfitta, annientata, sulle orme dei lupi si lanciano branchi di Chihuahua abbaianti, convinti di poterli sbranare, sulla nuova piazza, quella virtuale, si disquisisce del nulla, la storia non è affatto finita, certamente, ma ha preso una brutta strada, si formulano progetti straordinari e nel frattempo si smantella, si smobilita, si continua a smontare, l’umanità fatta a pezzi, da sostituire con componenti in vendita nei migliori negozi.
Questo Primo Maggio è ormai un trofeo conteso, appartiene all’uno o all’altro, rivendicato da questo e da quello, in realtà è soltanto un sogno sbiadito, come il ricordo di una fidanzatina di gioventù, come uno struggente sogno d’amore svanito per sempre, come la malinconia feroce di una piazza vuota, lasciata ai giochi innocenti dei bambini, e a questo sole torrido, che è feroce come la realtà.