LA PAROLA e LA STORIA. Scarpa, scarparu, calandreddhi, tappinara

LA PAROLA e LA STORIA. Scarpa, scarparu, calandreddhi, tappinara
scarparo Scarpa, calzatura in genere (ma quelli delle campagne bovesi usavano il maschile  scarpu), privilegio che pochi potevano permettersi nella Calabria agricola fino a metà del Novecento e prima dell’inondazione neocapitalista negli Anni Sessanta del secolo scorso. 

Chi verso i vent’anni riusciva a farsi un paio di scarpe lo usava poi con molta parsimonia,  a forza di solature e risolature, per il matrimonio suo e dei parenti, per le feste e i funerali e, infine, lo indossava anche nella cassa da morto.

I montanari erano più fortunati ed usavano le calandreddhi, piattaforme di cuoio vaccino che avvolgevano il piede mediante delle stringhe di cuoio larghe meno di un centimetro e inserite nelle àsole disposte ai bordi; una volta terminata l’imbracatura delle estremità le stringhe venivano incrociate attorno al polpaccio e poi legate sotto il ginocchio.

La divisione sociale tra coloro che disponevano di scarpe e coloro che dovevano accontentarsi delle calandrelle è rimasta viva nell’espressione sprezzante “Finu all’annu scorsu iva girandu cu li calandreddhi” (fino all’anno scorso non aveva manco le scarpe e andava girando con le calandrelle) che ha un equivalente nell’espressione molto diffusa nell’Agro Romano e sprezzante verso chi  fino a poco tempo prima “scendeva a Roma con le cioce ai piedi” (per inciso le cioce  hanno dato il nome alla Ciociarìa, vasto territorio nel Lazio meridionale ai confini con la Campania, nonché ai ciociari che ne sono laboriosi abitanti).

Il nome potrebbe derivare da un latino  volgare Colyndra, rivestimento di forma cilindrica aderente al pezzo da proteggere come la calandreddha al piede (impiegato anche nella meccanica automobilistica e non solo, dal greco kylindros), o, forse, dalla felicità che accompagnava chi, abituato ad andare scalzo, alla fine si trovava le piante dei piedi protetti: kalo-andra, uomo felice e  perciò chiacchierone che mai si cheta (Toscana), che da noi è anche cognome e soprannome (Calandra, Calindro) e potrebbe legare la calzatura all’omonimo passeraceo, Melanocorypha calandra, grande allodola abilissima nel canto.

Le donne di casa, quando non andavano scalze, usavano scarpe di tela resistente che si confezionavano da sole; tarpa si chiamava quella tela molto simile al fustagno e tarpina-e si dissero le calzature, poi diventate tappine per via dell’assimilazione e indicanti in genere anche le ciabatte, da cui tappinara, spregiativo per donna abituata a stare in casa e poco adatta ai lavori agricoli.

Jiri cu na scarpa e na tappina significa essere strampalato, indossare scarpe spaiate e vestire a casaccio.

Il problema fondamentale delle scarpe, come di qualsiasi opera artigianale, era la misura: non dovevano essere troppo larghe perché altrimenti cadevano dai piedi e nemmeno troppo strette per evitare altri inconvenienti circolatori e i micidiali incarnamenti di unghia.

Bisognava prendere bene le misure ed impiegare la ‘forma’ (facsimile del piede su cui lavoravano i calzolai) giusta; sicché trovau la forma pe’ lu so’ pedi era espressione metaforica per dire che una persona difficile e inquieta, assimilabile a un piede contorto e fuori misura, aveva trovato qualcuno (la moglie, la suocera, un maresciallo dei carabinieri, un vicino più cazzuto di lui) che l’aveva messo a posto, gli aveva disciplinato il carattere (come faceva il calzolaio con il piede fuori norma) costringendolo ad acquietarsi. Il massimo sarebbe stato  farlo stare cu du pedi nta na scarpa.

Gli scarpari, acconciatori di calzature,  erano circondati da cattiva fama: scarparu e barberi non campa mugghieri e la poca considerazione finiva per coinvolgere altri artigiani: sartu e barberi non campa mugghieri; sicché un’attività svolta male (dalla posa di un pavimento ad un tema in classe) diventava  ‘lavuru di scarpari’.

Era ‘scarparu finu’ chi costruiva le scarpe e le riparava in modo inappuntabile.

Gli scarpari di Mèlito, una decina negli anni sessanta del secolo scorso e oggi non se ne vede neanche uno, erano fumatori instancabili di ‘esportazioni senza filtro’ con annessi tossi insistenti ed espettorazioni  irriferibili; tutti militanti del PCI, erano sociologi inaccademici che censivano le stratificazioni sociali ingiuste a partire dalle calzature che acconciavano.

Il Decano era Turi Battaglia, antifascista della primissima ora incallito e impenitente, che nel 1944 ebbe l’ardire di imporre al suo ultimo nato il nome sacro del Grande Padre di tutti i comunisti; Giastalino all’anagrafe ma, al di là delle risultanze anagrafiche, il padre e gli altri familiari e poi tutto il paese finirono per chiamare Stalin ‘tout court’ l’ultimo dei Battaglia che crebbe senza dare eccessivo peso a quel nome tremendo, preferendo il football alla politica come la maggior parte dei suoi coetanei.

Il discepolo più promettente era Mico Scordo, la giugulare ingrossata e arrossata quando, per qualche bicchiere in più, cantava con voce baritonale Bandiera Rossa e-o L’internazionale per trasmettere l’inalterata e speranzosa fede che lo accompagnava; fuori dagli impegni professionali e pedagogico-politici era estimatore del vino di Larenzino e aveva un debole per la salsiccia di casa ma, per il resto, era coerente come un logico del medioevo e incorruttibile almeno quanto Saint-Just.





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