L’INTERVISTA. Aldo Varano, da decenni voto sempre (con convinzione) per il meno peggio

L’INTERVISTA. Aldo Varano, da decenni voto sempre (con convinzione) per il meno peggio
alva Per oltre 20 anni inviato speciale dell’Unità, Aldo Varano è fondatore e direttore di Zoomsud.it. Decano del giornalismo, Aldo Varano è un geniale istrione, appassionato del quarto potere fino al parossismo, non ha alcun timore di andare controcorrente e lo fa affidandosi alle proprie intuizioni e alla propria razionalità, non certo da capopopolo sobillatore.

Domanda (D). “Ognuno è responsabile del suo tempo” sosteneva Corrado Alvaro. Il giornalista lo è un po’ di più?

Risposta (R). Intanto, complimenti a chi ha scelto la citazione. È attualissima. Alvaro vedeva lungo. Bisognerebbe scolpirla sulla porta di tutte le abitazioni. Invece c’è un fuggi fuggi dalle responsabilità. La colpa è sempre degli altri. Ma passiamo ai giornalisti. In passato erano un po’ più responsabili degli altri. Ora no. È in atto una rivoluzione mediatica che gli toglie sempre più ruolo, peso, responsabilità, e anche prestigio. È che non hanno (non abbiamo) più il monopolio della notizia. Il mondo, piaccia o no, va verso una realtà in cui giornalisti e lettori coincideranno. Tutti giornalisti (sui social) e tutti lettori (sempre sui social). È troppo presto per capire che conseguenze avrà tutto questo. Poi ci sono i talk show e l’informazione spettacolo. Qui le responsabilità s’impennano. Ma quello è già un altro mestiere. La rete deresponsabilizza. E questo sarà un problema sempre più drammatico che prima o poi andrà affrontato.

Giornalista professionista dal 1987, facendo un bilancio della sua carriera, pensa di aver vinto qualche battaglia?

È una domanda imbarazzante. Le battaglie le vincono e le perdono i cittadini, le comunità, i gruppi di pressione. I giornalisti devono (dovrebbero) raccontare quei mondi. Ma capisco il senso della domanda. Diciamo che dal mio lavoro ho avuto moltissime soddisfazioni. Veramente molte. Se invece vuol sapere quante volte ho raccontato i fatti senza che questo incidesse sulla realtà direi che questa è la normalità del giornalismo. È raro che il nostro racconto modifichi le cose. Diciamo che depositiamo spinte e prese d’atto che aiutano i processi. Ma il protagonista non è mai chi racconta, è chi fa.

Più volte si è ritrovato ad analizzare il fenomeno mafioso in Calabria. La ‘ndrangheta è il male peggiore della nostra terra, paura cieca, il franchising più riuscito, una truffa?

Chi fa della ‘ndrangheta il problema fondamentale e prioritario della Calabria sbaglia e – non è un paradosso - indebolisce anche la lotta per sconfiggerla cancellandola dal nostro orizzonte storico fino a farne “normale” e “fisiologica” devianza criminale. È questa la mia opinione. Il problema vero della Calabria, quello da cui dipendono tutti gli altri, e anche quello della ‘ndrangheta, è lo squilibrio tra la ricchezza che riusciamo a creare e quella che ci serve per vivere, sia pure a un livello più basso rispetto al resto del paese. Lavoro, salute, sicurezza dipendono tutte da questo nodo. Ma non è colpa del destino. La Calabria possiede le risorse necessarie per una vita che utilizzi tutte le possibilità del nostro presente storico. Ma attivarle vuol dire sconfiggere l’insieme degli interessi parassitari cristallizzati dentro la Calabria, liberare per intero le nostre potenzialità produttive e le nostre risorse. Non è una cosa che i calabresi potranno fare da soli. Servirebbe il massimo, proprio il massimo, della volontà della Calabria e insieme un progetto nazionale capace di assecondare questo sforzo. Una volta tutto questo si chiamava questione meridionale. Questione ora nascosta sotto il tappeto che si vendica impedendo all’Italia di correre come altri paesi europei.

Perché non si è ancora riusciti a sconfiggere le mafie?

La ringrazio per questa domanda. Ne ho fatto il punto centrale in tutte le mie discussioni, pubbliche o private, sulla ‘ndrangheta. Mi rifiuto da tempo di trattare l’argomento se non partendo da qui. Se non si parte da qui, è aria fritta. In Calabria, l’interrogativo viene ampiamente rimosso e nascosto. C’è confusione perfino a individuare il potere a cui spetta l’obbligo di sconfiggere la mafia. Certo, serve il contributo di tutti. Ma c’è o no un potere che ha l’obbligo specifico di organizzare e dirigere, rispondendone, gli sforzi necessari per raggiungere questo obiettivo che difficilmente verrà centrato da retorica e proclami? Evitiamo equivoci: magistrati e forze dell’ordine contro le cosche sono preziosi e senza loro la vita in Calabria peggiorerebbe in modo drastico. Ma la magistratura non può sconfiggere la mafia. Per definizione giudica, punisce e reprime i reati e i misfatti che la mafia ha già commesso o ha già iniziato a consumare. Ma per sconfiggere la mafia veramente bisogna distruggere le condizioni che producono e riproducono in continuazione il fenomeno mafioso. Questo punto, che è quello strategicamente decisivo, viene spesso e da molti rimosso. Ho il sospetto che accada per due ragioni: il convincimento che non sia possibile vincere la mafia e il convincimento che la mafia esiste non a causa di una situazione storica ma per il nostro Dna. Volevo riassumere questo ragionamento quando ho scritto che molti calabresi (naturalmente non tutti) hanno un pregiudizio razzista contro i calabresi.

Quali sono, secondo lei, gli interessi degli intellettuali calabresi di mostrare fuori dai confini della Punta dello Stivale il volto negativo della loro regione? Lo fanno tutti consapevolmente?

Non credo che si debbano aver timori a mostrare per intero il nostro volto che comprende negatività molto ampie. Dietro questa paura, spesso, si nasconde una domanda di protezione per l’assistenzialismo, che è uno dei nostri mali peggiori che viene alimentato soprattutto dalle classi dominanti e privilegiate. Il problema è che il volto della Calabria è complesso e non sempre gli intellettuali (e nel mucchio metto anche i giornalisti e quindi me stesso) riescono a spiegarlo correttamente. C’è poi un altro fenomeno: ci sono intellettuali che faticherebbero a essere ascoltati o pubblicati cento metri più in là di dove abitano, figuriamoci a nord della Sila. Da qui una spinta a farsi accettare raccontando quel che gli altri si vogliono sentir dire. Gli intellettuali come gruppo, nella storia italiana, non sono mai stati innocenti. Ma nessun gruppo è unidimensinale. Ci sono intellettuali calabresi che non riescono a trasmettere un’immagine corretta della Calabria. Altri ci riescono benissimo. E poi, è il gruppo più folto, ci sono gli intellettuali presunti. Come sempre, le cose sono complicate.

Negli ultimi trent’anni, secondo lei, ci si è preoccupati più di trasformare la Calabria o di gestirla?

Il termine trasformazione è molto equivoco. La Calabria si trasforma in continuazione. In natura e nella storia la stasi non esiste. Invece, molti in Calabria sono convinti che tutto resti sempre fermo. Perfino arrivando alla conclusione che il cambiamento è impossibile. Quanto alla periodizzazione, io credo che se si vuole capire la vicenda calabrese bisogna pensare a partire dagli anni 70. Fu allora che venne accantonata la questione meridionale (me lo lasci ricordare sul giornale che è stato del mio amico Pasquino Crupi, portabandiera prestigioso del meridionalismo) sotto la triplice spinta della nascita delle Regioni (1970, Moti di Reggio, Aquila, Castellamare, Avola, ecc), l’Autunno caldo (1969) e la decisione politica di cooptare nel sistema di potere la generazione del ‘68. E’ da allora che la Calabria viene gestita in modo impotente e spesso mediocre.

Che speranze per la Calabria ci verranno consegnate il 4 marzo prossimo?

Non lo so. Dipenderà dai risultati elettorali. Vedo molta incertezza e la tendenza a ritrarsi dall’appuntamento. Per quel che mi riguarda voterò come ho sempre fatto negli ultimi decenni scegliendo con attenzione il meno peggio. Sono un teorico del meno peggio. È la soluzione migliore, più lucida e più culturalmente attrezzata per aiutare la Calabria.

*questa intervista, rilasciata a Maria Giovanna Cogliandro, direttore responsabile del settimanale Riviera, è già apparsa sul settimanale e viene qui riproposta con l'autorizzazione dell'autrice che zoomsud ringrazia.