Non illudiamoci. L’umanità questa è. Divisa. Tra quelli che vedono l’altro e chi non riescono a guardarsi la punta dei piedi. Tra chi resiste all’umano, nonostante la voglia di resa, al facile: “ma sì, tanto non serve a niente” e chi cerca nemici illusori e in fondo innocui, pretesti di rabbia facile.
Prendiamo il caso dei Pakistani sbarcati in Calabria. Quei settanta immigrati arrivati via mare a Roccella Jonica. Settanta uomini, di cui ventotto risultati positivi al corona virus. Le parole più usate al mondo, ormai. Almeno questo ci unisce. Insomma da un lato ci sono quelli che soccorrono e dall’altro c’è chi si incazza. Da un lato un sindaco che pur applicando le leggi e adottando i protocolli necessari, ha visto la tristezza negli occhi di quella gente e ne ha provato compassione e dall’altro chi per protesta, paura, ignoranza, insomma chiamatela come volete, ha manifestato, sdraiandosi. Tutti belli panciuti e sudaticci, che più del corona dovrebbero temere il colesterolo, e sì che di infarto muore un sacco di gente. Però vabbè, loro si sono assembrati quel tanto che basta per rischiare potenziali trasmissioni virali.
Avevano paura che i pakistani, subito controllati e poi portati in zone sicure, potessero contagiarli. Che detto così sembra il racconto di un burlone, e invece sono soltanto i percorsi mentali dei signori incazzati e le conseguenti azioni irrazionali. Che poi ti chiedi se davvero qui il problema è il virus, o il solito uomo di colore che puzza di povertà e quell’odio alimentato da anni, dal fare di certi figuri politici di dubbio valore culturale, morale e umano. Insomma dicevo, non illudiamoci. Ci stanno quelli che sanno capire, soppesare, agire anche con razionalità e quelli che vivono in balia di istinti primordiali e di furbi manipolatori che smuovono il torbido dell’animo e un disagio che sta tra il sociale e l’esistenziale, per consenso e voti.
E allora vai con il bisogno di vita, con l’happy hour e poi feste, spiagge, corpi, banchetti, matrimoni, apericena, lidi affollati, festicciole private. Perché ci si deve divertire dopo tanti sacrifici e quel senso di morte opprimente che ancora proviamo. Vai con la movida e i balli, vai con i turisti del nord, che un po’ ti vergogni a chiedere a loro se è tutto ok, o se invece esportano il morbo dei morbi. E no, lì si tace. Ma guai se a toccare il nostro sacro suolo, sono gli sporchi migranti col virus in corpo. Ché se propri si deve morire di corona, che sia almeno italiano. Prima gli Italiani sempre.
Però, in questa serata estiva in cui scrivo, in questo tempo in cui siamo tutti confusi e disorientati, avvelenati da un futuro ancora più incerto di prima, in cui ci sentiamo precipitare senza la possibilità di corde cui aggrapparci, in questa Calabria sepolta da cumuli di spazzatura, da una politica incapace, soffocati dalla criminalità, come i fumi dei rifiuti bruciati, mi stringo a un appiglio di parole. Quelle del sindaco di Roccella Jonica, che è un monito etico e umano di chi ha scelto da che parte stare. Qui non ci sono buoni o cattivi come in un film di Sergio Leone. No. Qui è in gioco la nostra stessa esistenza. Perché se non riusciamo a vedere la tristezza negli occhi dell’altro, o se pur vedendola non proviamo compassione, allora amici miei, abbiamo perso tutti. E sarebbe meglio, per protesta, stare per sempre sdraiati su quel fottuto asfalto rovente, con le pance prominenti e i bermuda estivi, così tanto di moda. Stiamo lì, come un’installazione perpetua che ci ricordi la morte dell’umanità e di tutte le volte in cui le quotidiane disperazioni e la fatica del vivere, hanno trovato quale facile bersaglio, il corpo degli inermi.