Ecco perché io, sposa e madre, avrei voluto essere omosessuale. CALABRÒ

Ecco perché io, sposa e madre, avrei voluto essere omosessuale. CALABRÒ

omo     di TIZIANA CALABRÒ - Avrei voluto essere omosessuale ieri sera. Avrei voluto essere la madre dal sorriso dolce di una figlia lesbica, avrei voluto essere il padre dall'aria placida e mite, del giovane uomo gay. Io etero, madre, donna, eterosessuale, avrei voluto essere uno di loro, per provare - oltre al dolore ai piedi costretti a sorreggermi per più di tre ore in quel salone pieno di gente perbene e rispettabile, e quella tristezza a volte stanca a volte arrabbiata - quello che hanno sentito dentro.

Quando sono entrati nella sala gremita, quando hanno visto il palco con i relatori, tutti uomini. Quando si é iniziato a parlare di Teoria Gender. E non chiedetemi cosa sia, perché ancora non l'ho capito cosa diavolo intendano questi signori per Teoria Gender. Avrei volevo essere uno di loro quando si è parlato di famiglia e di figli e di complotti strani perpetrati da oscure lobby omosessuali, che minaccerebbero la quiete delle loro vite ordinarie.

Avrei volevo essere uno di loro, quando un relatore dalla sicumera spavalda e il papillon, ha affabulato la platea piena di padri, madri, nonne e ragazzi, con battute ridanciane e violente, quando si è dichiarato a braccia allargate, come chi si offre al pubblico plauso, orgogliosamente omofobo. Come se tutto questo fosse normale, come se non si parlasse di persone con sentimenti, sensibilità, desideri e una vita da vivere, proprio come quella del pubblico seduto sulle poltroncine del teatro pieno. Volevo essere uno di loro per sentire nel profondo dell'anima le offese. C'erano padri, madri, nonni e nonne, gente comune e ordinaria, tutti a ridere e ad applaudire, a farsi sedurre dalla mimica dell'uomo con il papillon.

Avrei voluto essere il Presidente dell'Arcigay di Reggio Calabria, Lucio Dattola, invitato all'incontro-dibattito che si è tenuto ieri sera all’Auditorium Don Orione intitolato “Teoria Gender e la sfida Antropologica”, quando dopo avere ascoltato i relatori, ha capito che non lo avrebbero fatto parlare.

E con lui nessun altro.

Volevo essere uno di loro, perché per me, etero, donna, madre, dentro una famiglia protetta e riconosciuta è troppo facile esserci, è troppo facile soffrire.

E a tutti quelli che erano lì ad annuire con il capo, a ridere come a uno spettacolo di cabaret, a battere le mani, a loro che sono tornati a casa pacificati, rassicurati nelle loro paure rafforzate, avrei voluto dire questo, se solo mi avessero fatto parlare.

Avrei voluto dire: mi chiamo Tiziana, sono sposata e sono madre di due ragazzini. Stasera sono qui, non per farvi cambiare idea, ma per dirvi che ci sono visioni del mondo diverse dalla vostra. Ho chiesto a mio figlio di nove anni cosa fosse per lui la famiglia. Mi ha risposto che la famiglia è un gruppo di persone in cui tutti si vogliono bene. Educherò i miei figli al rispetto delle diversità, continuerò a dire loro che la diversità è ricchezza e bellezza. Così impareranno ad amarsi per la unicità di cui sono portatori, pretendendo da tutti uguale rispetto.

Questo avrei voluto dire e poco altro, se solo ci avessero fatto parlare.

Non lo hanno fatto. Ma in fondo non importa. Io me li immagino ancora e ancora lì, come in una scena sempre uguale che si ripete all’infinito, i relatori soddisfatti e il pubblico plaudente, nel chiuso di un teatro stracolmo in cui tutti la pensano allo stesso modo.

E mi immagino i ragazzi e le ragazze andare via, con la vita da scoprire e inventare e gustare nella sua colorata e multiforme bellezza. Come colorato e multiforme è l’arcobaleno.