LA STORIA. Melito, l’incubo di Maria violentata per due anni dal branco

LA STORIA. Melito, l’incubo di Maria violentata per due anni dal branco
donne  «Sta zitta e sali». Le mani poggiate sul grembo, lo sguardo fisso nel vuoto. I crampi allo stomaco e un rosario in testa, cercando inutilmente aiuto. Me la immagino così, Maria. Perché questo è il nome (di fantasia) che mi viene da darle pensando alla sua storia. Una storia di violenza e silenzi, di cattiverie e miseria umana. Tredici anni, una vita ancora davanti, strozzata da un nodo alla gola, uno allo stomaco e uno al petto. E una parola, “amore”, che ha perso ogni senso.

La vanno a prendere all’uscita di scuola, almeno due volte a settimana. Hanno uno schema preciso: oggi io, domani tu, dopodomani quell’altro. E qualche volta tutti insieme. A volte senza nemmeno aspettare di arrivare su un letto, in quella macchina, sotto gli sguardi degli altri. Sguardi che si sarebbero trasformati in foto, da usare come ricatto. «Parla e tutti sapranno che fai con noi», le dicono con un ghigno sul volto. Costretta a fare qualunque cosa le chiedano, costretta a provare vergogna per lo schifo che le riservano.

Tutti, a turno, fanno di lei quello che vogliono. All’inizio di questa brutta storia c’è l’amore. O almeno questo pensa Maria. Lui è Davide Schimizzi, ai tempi 20 anni, troppi in più rispetto a lei, che ne ha soltanto 13 ed ancora non ha smesso, forse, di giocare con le bambole. I due, ad un certo punto, si lasciano. Qualcuno la corteggia e questo al suo fidanzato non va giù. È un disonore, quello a cui, per ripicca, tocca far pagare a lei. Così, per farsi “perdonare”, deve accettare la “discesa agli inferi”, secondo l’immagine pregnante e terribile che userà un’altra donna, Barbara Bennato, la Gip del tribunale costretta a leggere pagine lacrime, violenza e vergogna.

Il teatro è una casa le cui chiavi stanno in mano a Giovanni Iamonte, 30 anni, figlio del boss Remingo. E anche lui, assieme agli altri, abusa di Maria, vittima di un amore che cercava disperatamente dopo la separazione dei suoi genitori. Li autorizza il suo “amore”, quegli amici, ad abusare di quella ragazzina indifesa che cercava solo protezione. Si tratta, oltre a Schimizzi, di Daniele Benedetto, 21 anni, Pasquale Principato, 22 anni, Michele Nucera, 22 anni, Lorenzo Tripodi, 21 anni, Antonio Verduci, 22 anni, tutti finiti in carcere, e G. G., 18 anni, ai tempi minorenne e spedito in comunità. Sono tutti accusati, a vario titolo, di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale. Ma c’è anche Domenico Mario Pitasi, 24 anni, accusato di favoreggiamento personale, per il quale è stato imposto l'obbligo di firma. Nove persone, nove fantasmi che hanno abitato negli incubi di Maria per due lunghi anni e chissà ci metteranno per andar via.

Ma non si tratta solo di incubi. Le mani, gli occhi, le parole sono tutti reali. Il suono della campanella è il segnale: il via libera alo martirio che sta per cominciare. Chi deve vedere può tranquillamente chiudere gli occhi, esonerato dal suono penetrante di un campanaccio. Maria attraversa il cancello, a Melito Porto Salvo, tremando. Trema come chi sente il cognome del suo aguzzino: Iamonte. Basta quello che imporre a tutti di girare lo sguardo altrove. Per far dire: «cavoli loro».

Maria spera sempre che quel giorno abbiano altro da fare, altro a cui pensare. Ma sono lì, la macchina accesa, musica nell’abitacolo, lo sguardo puntato su di lei. «Sali e sta zitta». Maria sale e i pensieri faticano a scendere giù, come la saliva. Sa cosa sta per accaderle ancora una volta. Sa che nessuno crederà al suo racconto, semmai le verrà voglia di parlare, se le parole smetteranno di bruciare in gola, sa che nessuno si accorge di nulla. «Com’è possibile?», sembra di sentirla ripetere. E quelle parole le bucano il cervello.

Come sia stato possibile lo ha capito e lo spiega Federico Cafiero de Raho, capo della Dda reggina. «Questi abusi – dice in conferenza stampa - hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto. Tutto questo è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente». Schiavitù alla ‘ndrangheta ma non solo. «Facimundi i fatti nostri», avrà detto qualcuno, «cu ‘nda faci fari». E tutto torna normale, gli occhi chiusi su un abisso di meschinità, la routine che procede spedita. Nemmeno i genitori di Maria, fino ad un certo punto, hanno fatto niente. Quel nome, Iamonte, li faceva tremare, al punto da non trovare il coraggio di salvare quella figlia. Solo l’estate scorsa si sono presentati al comando dei carabinieri, accennando qualcosa e poi rivolgendosi ad un avvocato. Nonostante l’omertà, il comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e la compagnia di Melito sono riusciti a ricostruire l’orrore. Maria, poco a poco, è riuscita a raccontare quello che aveva provato a scriverlo anche in un tema. Quello che una fonte confidenziale ha provato a raccontare ai carabinieri, che hanno provato a squarciare il velo d’omertà che affligge come una cappa Melito. Quel velo steso da clan  convinti e autorizzati a dettare legge su tuttio e su tutti.