di TIZIANA CALABRÒ
- “Questo scritto, a volerlo a forza definire, è un puro esercizio della memoria”. Così si legge nella “Dichiarazioni di intenti” con cui Domenico Loddo introduce la sua opera che ci conduce senza filtri, dentro un passato segnato dalla tragedia: “[28 dicembre 1908] {frammenti tellurici} (monologo per due voci e una solitudine)” edita da Città del Sole Edizioni. Questo il suo titolo racchiuso tra le parentesi, come una formula matematica, come un abbraccio. E questa composizione di parole sudate e sofferte, è l’intento amorevole di seminare nel cuore di chi legge una storia dimenticata e sbiadita dal tempo e per questo percepita ormai lontana e impalpabile.
“Così un mattino, quando la notte non ha ancora concesso nessuno dei suoi neri atomi all’albeggiare del sole, un tremore appena accennato s’incunea nel cuore dello Stretto”. Con poche parole, l’autore, ci racconta la morte, con il pudore di chi sente l’umanità sofferente. Ci racconta la “strage degli innocenti” e il dolore che ne è derivato, piantato nei cuori dei superstiti, come una croce. Ci disvela il terremoto del 1908, che ridusse a un grumo di macerie le due città separate dal mare, Reggio Calabria e Messina. Le parole dell’autore, dalla bellezza visionaria e potente, invadono i nostri pensieri, come fece l’acqua salata delle onde quell’alba di inizio secolo: “Un boato scatena scatenato l’ira della terra, scrollandosi di dosso quanto si permette di giacervi sopra. Si curva nelle sue viscere per trenta secondi, gemendo nell’acqua del mare che si issa verso l’alto come una mobile montagna bianca, schizzando di sé il cielo fino a mischiarsi tra le nuvole (…) Ventotto Dicembre Millenovecentootto, il mondo si sveglia contando ottantasettemila morti”.
Domenico Loddo, che si definisce provinciale dell’esistenza - che ha scritto fumetti, cortometraggi, racconti e romanzi caratterizzati da una forza visionaria e tragica - attraverso il suo testo “che aspira al teatro”, nel portare i nostri sguardi, i nostri sensi e le emozioni dentro la terra devastata, compie un atto di pietà per i morti e per i sopravvissuti di quel dicembre lontano.
Racconta il disastro che “viene al mondo come un ospite inaspettato” e devasta e annienta vie, piazze, palazzi, colonne, i “nomi di chi è stato, i gesti di chi non è più”. Compie un piccolo miracolo, che solo la letteratura sa, dando corpo alle ombre, portandoci tra i passi fantasma dei superstiti, restituendo le voci, facendoci ascoltare lo schianto del dolore, la disperazione e lo smarrimento che non conosce speranza. Riporta in vita gli uomini che in quei giorni furono protagonisti nei soccorsi, descrivendo le loro inettitudini o la grandezza.
Il libro non è soltanto un piccolo prezioso documento storico, è molto di più. Le parole scritte ci avvolgono, ci sollevano e ci trasportano proprio lì, tra le macerie, dentro l’inferno, facendoci vedere e vivere il terremoto e le sue conseguenze materiali e umane come mai prima, perché “a guardare bene, in quel groviglio di date c’era così tanto dolore da poter essere sgranato come un rosario”.
Il libro, che racconta una storia che tanto ci appartiene e della quale siamo figli, va oltre un semplice narrare. Percorrendo le parole e le immagini che queste evocano, ci costringe a interrogarci sul significato del nostro esistere, ponendoci dinanzi alla ricerca incessante sul senso profondo della vita, che nonostante l’orrore, porta dentro il suo grembo l’urgenza del futuro.