MONGIANA/4. Il Sud oltre le pulsioni ideologiche. Tutte, non solo quelle neoborboniche

MONGIANA/4. Il Sud oltre le pulsioni ideologiche. Tutte, non solo quelle neoborboniche
mongiana4   Nel suo articolo sul Museo della Mongiana, Aldo Varano propone un’interessante riflessione. Operazioni come il recupero delle ferriere, sostanzialmente dice, hanno davvero senso se ci aiutano a ricostruire, in maniera corretta e senza deformazioni ideologiche, la storia della Calabria e del Meridione. Bisogna, perciò, fare piazza pulita della retorica nostalgica e del “cascame ideologico neoborbonico e regressivo”, in cui rientrerebbe la retorica sulle ferriere di Mongiana, spesso citate come positivo esempio dell’industria del Regno delle Due Sicilie. In realtà, scrive Varano: “le fabbriche delle Serre e di Mongiana erano mattatoi per calabresi poveri dove si produceva in condizioni di terribile arretratezza (anche rispetto a quel tempo storico)”.  Un’affermazione questa, basata essenzialmente su un passo del Giornale di viaggio in Calabria del 1792, in cui Giuseppe M. Galanti osservava come gli addetti alle fornaci avessero vita corta e, ordinariamente, morissero ciechi o paralitici attorno ai 40 anni. Da qui l’immagine del mattatoio per calabresi.

“Lavoro nella cava di Gawber. Non mi stanca, ma devo lavorare senza luce e ho paura. Inizio alle quattro e talvolta tre e mezza del mattino, ed esco alle cinque e mezza. Non vado mai a dormire. A volte, quando ho la luce, canto, ma non al buio, io non oso cantare allora.” A parlare è Sarah Gooder, di anni 8, operaia in una cava inglese nei primi dell’Ottocento. Nel 1802, in Inghilterra, la giornata lavorativa di un bambino era di 12 ore. Nel 1819, l’età minima nell’industria cotoniera, le cui terribili condizioni risultano dai resoconti medici, venne portata a 9 anni. Il lavoro dei bambini nelle miniere fu vietato solo nel 1842. Come Sarah Gooder, in tutta Europa, i bambini lavoravano nelle cave, nelle fabbriche e nei cantieri e morivano facendo gli spazzacamini. Quelle erano le condizioni di lavoro del tempo. Nelle ferriere di Mongiana, nel 1792, non erano diverse da quelle di altri opifici. Il concetto di sicurezza sul lavoro è, ahimè, assai recente, come dimostrano le statistiche delle morti e degli incidenti. Per quel che riguarda le ferriere di Mongiana, è da osservare che nel 1845 venne emanato un Regolamento che, tra l’altro, prescriveva orari di lavoro inferiori a quelli adottati negli altri opifici e assistenza per gli infortuni. Un caso raro, considerata l’epoca. Le ferriere erano uno stabilimento tecnologicamente avanzato? La risposta è no. Come non lo erano quelli del Nord Italia, specie quelli liguri. Si produceva usando legna come combustibile, con il metodo “alla catalana”. Un sistema inefficiente rispetto a quello usato nelle nazioni del Nord Europa che disponevano di carbon fossile.

Il complesso delle miniere e delle ferriere di Mongiana occupava, poco prima dell’Unità,  circa 1500 addetti. Nel 1864, l’ing. F. Giordano, per conto della Commissione delle ferriere istituita dal governo unitario, stilò una relazione che conteneva alcune indicazioni per rilanciare la siderurgia di Mongiana. Chiedeva al governo di sistemare le strade e suggeriva di concedere ai privati gli impianti, mantenendo delle commesse pubbliche per sostenere la produzione. Le ferriere vennero vendute ad Achille Fazzari, deputato del primo Parlamento italiano, ex garibaldino. Nel 1881 gli altiforni si spensero definitivamente. “Talune forme di economia ricevettero un colpo assai duro dall’unificazione: basti pensare al tracollo e alla pressoché immediata soppressione delle attività minerarie e del sistema di ferriere di Mongiana-Ferdinandea-Serra, che prima fabbricavano armi, munizioni e taluni macchinari, operando sì fuori concorrenza e dietro commesse dello stato borbonico  (donde la non piena economicità), ma che intanto costituivano, insieme con i nuclei campani, un punto alto dell’industria meridionale”. A scrivere è Augusto Placanica (Storia della Calabria, p. 316), che Aldo Varano pure cita nel suo articolo.  Quanto alle commesse statali, l’industria meridionale ricevette appena il 6 per cento di quelle necessarie per la rete ferroviaria: su 600 locomotive, agli Stabilimenti di Pietrarsa (fino al 1861 i più grandi della penisola) ne furono richieste solo 36. La protezione dello Stato, che oggi tanto ci scandalizza, all’epoca era praticata da tutte le nazioni, inclusa, come ricorda Piero Bevilacqua, l’Inghilterra.

Negli ultimi anni, sul Sud non si è scritto solo “cascame neoborbonico” o memorialistica. Ricerche storiche ed economiche mostrano come il divario tra il Sud e il Centro-Nord fosse, alla data dell’Unità, assai modesto. Gli indicatori sociali, come la mortalità infantile, non mostravano differenze significative tra le due parti del Paese. I salari erano mediamente uguali. La malnutrizione meno diffusa al Sud che in molte aree del Nord. Nel 1861, nell’industria estrattivo-manifatturiera la Campania aveva la maggiore produzione industriale d’Italia. Il prodotto dell’industria siciliana superava quello dell’Emilia. Nell’industria meccanica, la produzione della Campania era maggiore di quella della Lombardia (dati C. Ciccarelli, S. Fenoaltea, La produzione industriale, Banca d’Italia vol. 2).

Ciò significa che il Sud fosse sviluppato, un’isola felice? Niente affatto. Ma non lo era l’Italia, un paese in cui l’industrializzazione moderna non si era ancora avviata e in cui, a causa dell’altissima mortalità infantile, l’aspettativa di vita era di appena 30 anni, come nella Roma di Augusto di duemila anni prima. L’arretratezza del Sud non fu condizione dell’industrializzazione del Nord. Ma, per come venne fatta, l’unificazione italiana ebbe conseguenze non solo economiche. La repressione del brigantaggio causò 15mila vittime, cui andrebbero aggiunti i civili: un tema che, fino al 2011, come scriveva Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera,  “una retorica negazionista prima savoiarda e poi fascista, seguita da una malintesa idea della storia orientata a metterci una pietra sopra aveva impedito di affrontare fino in fondo”.

Ha certo ragione Aldo Varano quando dice che è necessario “ricostruire il più correttamente possibile la nostra storia e le nostre radici”.  E ha ragione quando afferma che, per farlo, bisogna sbarazzarsi delle pulsioni ideologiche. Di tutte, non solo di quelle neoborboniche. Un compito impegnativo, quello di guardare i fatti senza la lente deformante dell’ideologia. Ma un compito cui dobbiamo sforzarci, per sapere come andarono le cose, per conoscere il nostro passato di meridionali e di italiani.

*docente UniCz