Vorrei intervenire a proposito dell’ottimo articolo di Aldo Varano sulle ferriere di Mongiana e sulle condizioni di vita di chi ci lavorava. Più che altro a questo mi spinge la necessità di completare le informazioni sulle condizioni di lavoro e di vita non solo di chi era addetto alla raffinazione del ferro ma anche e soprattutto a ogni lavoratore che era impegnato nel processo di estrazione e di produzione del minerale. Mi riferisco alle condizioni di vita dei cittadini di Pazzano, la maggioranza, dove erano ubicate le miniere dalle quali si estraeva il ferro, di Stilo, Bivongi e altri paesi. Pazzano era un paese di minatori e di contadini, anzi minatori-contadini giacché andavano a lavorare sia nei campi sia nelle miniere. Particolarmente disagiata era la loro condizione di vita. Essi erano addetti all’estrazione del ferro e al loro trasporto nelle fonderie. Quindi anche i mulattieri facevano parte del processo di produzione di quella industria. Il processo lavorativo quindi vedeva impegnate maestranze più o meno specializzate quali minatori, boscaioli, mulattieri, carbonieri, cernilari, fonditori, raffinatori ecc.
Nel secolo XIX nelle miniere di Pazzano la cifra di persone impegnate era di circa mille lavoratori. Il minatore aveva un turno che era simile a quello del bracciante agricolo, andava a lavorare al buio e tornava a casa al buio, cioè partiva prima dell’alba e tornava dopo il tramonto. Doveva aprire le miniere e dare ad esse la forma di grotta, lavorava col piccone stando in ginocchio o piegato. L’aria era spesso irrespirabile, perché le grotte erano anguste e in declivio, per cui favorivano lo scolo dell’acqua e la formazione di pozze proprio dove il minatore lavorava.
Il minerale estratto era trasportato in gerle da ragazzini, i grottarielli, che entravano e uscivano decine di volte al giorno con un peso non indifferente sulle spalle. L’impiego di ragazzini, dovuto alla nefanda consuetudine di impiegarli perché per loro era più agevole percorrere le grotte data la loro non sviluppata altezza, suscitò l’orrore sdegnato del Ministro Codronchi che, in una lettera al Re, diceva:
“Quello che finisce di rendere selvaggio, e ridicolo, ma nello stesso tempo barbaro, e crudele il travaglio delle miniere di Pazzano é l’estrazione del minerale dalle lor grotte, che si fa a schiena di ragazzini, i quali come vi sono per forza condotti a richiesta de’ minajoli in virtù del contratto si contentano di spatriarsi dalle loro case per sottrarsi a questo inumano trattamento.».
Solo le donne non erano utilizzate nelle miniere ma per compensare tale squilibrio, in virtù di un spiccato senso di parità ante litteram, esse venivano impiegate non di rado per il trasporto di legna e carbone ed, inoltre, nel lavoro agricolo.
Il trasporto del materiale dalle miniere alle fonderie veniva effettuato dai mulattieri sempre pazzanesi, mentre il lavoro diciamo così specializzato della fusione e raffinazione del ferro era effettuato dalle maestranze, tra le quali molte di origine sassone e norditaliana, di Bivongi e di Stilo. Ancora nel secolo XIX Pazzano rimaneva il casale dei minatori, mentre Bivongi e Stilo ospitavano le maestranze specializzate, che erano ricompensate con condizioni economiche particolarmente vantaggiose, che non erano ben viste dai minatori.
Quest’ultimi perciò guadagnavano poco rispetto ai primi. Questo dimostra due cose: non solo che, anche all’interno del processo di lavorazione, esistevano le classi, così come nel mondo civile, ma anche che la principale causa di questa situazione di squilibrio era dovuto all’uso di lavoratori stranieri. Nonostante, pure all’interno della comunità pazzanese esistessero le maestranze specializzate, che si trasmettevano i segreti del mestiere di generazione in generazione.
Questo provocò spesso delle rivolte, talvolta violente, che potevano sfociare in veri e propri scioperi.
Paradossalmente, quindi, gli addetti alle ferriere di Mongiana, cioè alla raffinazione del ferro, erano quelli che stavano meglio, rispetto a minatori, mulattieri e carbonai!
Oltre alle condizioni del lavoro, c’erano altre cause di disagio per i lavoratori.
La prima era l’inveterato uso di affittare al rendatario delle miniere l’intero paese con tutti i suoi cittadini, sottraendolo così alla giurisdizione civile e criminale di Stilo.
Questo significava che, nelle questioni di ordinaria amministrazione e di ordinaria giustizia, nessuno poteva metterci diciamo così becco, neppure il Re. Ogni cosa era questione privata tra l’Amministratore delle ferriere e il cittadino. Non appare difficile immaginare quali mezzi di tutela avesse il minatore nei confronti del rendatario.
La seconda era il ricorso al cottimismo, che induceva a turni di lavoro massacranti i raffinatori, i quali così non lavoravano bene né producevano ferro di buona qualità, e alla frode col beneplacito sacrosanto del personale dell’amministrazione i mulattieri e carbonai speculando su ogni possibile servizio.
Assodato che le condizioni di vita era queste, c’è da dire però che l’Unità d’Italia affossò il polo siderurgico calabrese, dapprima con le tasse del nuovo stato, che si sommarono al vecchio, successivamente boicottando l’industria estrattiva con il permesso concesso al Generale Carlo Filangieri, proprietario della fonderia di Razzonà, di importare la ghisa dall’Isola d’Elba o anche di importare i manufatti in ferro proprio lì dove si producevano.
Il nuovo stato unitario lasciò senza lavoro almeno 1500 tra minatori, fonditori, raffinatori, boscaioli, mulattieri e altri, e circa 3000 lavoratori dell’indotto semplicemente facendo finta che quella realtà ricca e produttiva non esistesse: inerzia assoluta!
Mentre i governi e gli imprenditori privati che si sono succeduti nella gestione del polo siderurgico calabrese tutti indistintamente si sono resi conto dell’enorme potenziale industriale che tale sito rappresentava, il governo nazionale dell’Italia unita è stato il solo che abbia spudoratamente e vergognosamente abbandonato ogni velleità di sfruttamento. Non crediamo si sia trattato di pura disattenzione, né di scetticismo su quel potenziale.
Prova ne sono due considerazioni:
1. Nel 1864 furono venduti dallo Stato alla Società Generale del Credito Mobiliare gli stabilimenti di Mongiana e Ferdinandea, magazzini e alloggi di Pazzano e di Pizzo, Cimitero e Cappella e addirittura i boschi demaniali! Successivamente, nel 1874 tutti questi possedimenti vengono acquistati ad un’asta pubblica dall’ex garibaldino e calabrese, nonché sincero socialista Achille Fazzari.
2. Fu una scelta di politica industriale quella di chiudere il polo calabrese. i fiori all'occhiello dell'economia meridionale come Pietrarsa, che era la più grande industria metalmeccanica d'Italia, i cantieri navali, gli stabilimenti siderurgici come Mongiana o Ferdinandea, l'industria tessile e le cartiere caddero in rovina o furono immediatamente chiusi, contemporaneamente al Nord sorsero quasi dal nulla analoghi stabilimenti come l'Arsenale di La Spezia o colossi come l'Orlando.
Era una semplice coincidenza?
*scrittore, nato a Pazzano