
Poi aveva continuato con quella raffica di attrici e vallette, se la sarebbe abbracciata la televisione chissà quante volte, e dopo Nada erano venute Raffaella Carrà e Mita Medici e Gloria Guida e un giorno da qualche parte in Italia aveva incontrato Marcella Bella con quei riccioloni e le Montagne Verdi, e allora lo avevano spedito a chiedere l’autografo e lui microbo coraggioso era partito penna in mano e le aveva detto signorina mi fai l’autografo inciampando e balbettando e quella aveva spalancato quegli occhioni che sembravano lune nere, gli aveva sorriso (santo dio gli sorridevano tutte le signorine a quel tempo), gli aveva chiesto il nome e poi gli aveva scarabocchiato una firma con la “M” dell’iniziale a forma di cuore e la dedica con gli occhi e le ciglia lunghe disegnate, che lui portò in tasca fino ai tempi delle superiori.
Venne il tempo della realtà: era poco più alto di un metro e un barattolo e frequentava gli Scout del Rione Ferrovieri quando conobbe la biondina con la coda di cavallo e le lentiggini che neanche Pippi Calzelunghe e gli occhi azzurri che erano una rarità in quella terra di nereidi scure come la carbonella. E ci si tuffò come si tuffava a mare, e la voce di lei era musica per le sue orecchie perché era pacata e sembrava già grande. Allora prese a sognarsela (ma non erano sogni), e la salvava dal nemico pericoloso come Lee Van Cleef e poi insieme a cavallo se ne andavano verso la valle solitaria e si sposavano e lui deponeva le colt e diventava un pacifico agricoltore. Ma di vivere felici e contenti la biondina non ne volle sapere perché già filava con uno cinque anni più grande di loro, e lo faceva di nascosto infatti il ragazzo era ignaro, e rimase come un torsolo di pera quando riuscì a restare da solo con lei e raccogliendo tutto il coraggio le chiese “vuoi metterti con me” ma lei rispose che potevano essere solo amici perché era fidanzata con il tizio che divenne subito il suo nemico odiatissimo anche se non c’entrava nulla, così la sera nei sogni lo sconfisse a duelli western tante di quelle volte che lo ridusse peggio di uno scolapasta. Delusione, sofferenza tenera, ma passò poco e il cuore tornò zingaro.
Quella successiva fu una Watussa che già la corteggiavano i ventenni e lui se si alzava sulle punte gli arrivava appena appena al mento, ma aveva gli occhi neri di una pantera e la pelle vellutata e il seno così grande che non avrebbe saputo cosa farne. Ed era già da un pezzo che si sentiva quel coso la sotto che gli diventava un palo vergognoso e infatti si vergognava come un coniglio quando accadeva ma accadeva eccome sette otto nove anche dieci volte al giorno, e scoprì tanto tempo dopo che si chiamano tempeste ormonali ma lui non sapeva niente di ormoni, piuttosto seguiva le orme di lei e le avrebbe seguite in capo al mondo. Se ne stava al mare a San Lorenzo Marina e lei ad Arcina a qualche chilometro di distanza, lui cercava di intravederla da lontano ma non ci riusciva così un giorno prese e si avviò, ancora piccolo come un biscotto Atene e secco- secco con le ossa che le potevi contare. E cammina, cammina, cammina ancora, il sole bruciava ma che ci fa il sole quando hai dodici anni e sei innamorato, fin quando non la raggiunse e quella rise, e i suoi genitori gli offrirono il panino col pomodoro e poi fecero il bagno insieme e lui si dimenticò di tutto, di quanto fosse lontano e di che ora era e dei genitori che lo aspettavano e alle due di pomeriggio infine mezza spiaggia lo cercava mentre suo padre con la macchina costeggiava la riva e sua mamma dava di matto. Se ne tornò trasognato con quell’aria innocente, né capì perché la mamma piangesse e se lo abbracciasse forte appeno lo vide, ma durò poco perché quella fu la volta che le prese di santa ragione e il cucchiaio di legno bruciava sulla pelle e se in genere era un colpo massimo due allora furono almeno venti cucchiaiate sul sedere, sulle braccia, sulle gambe e non ci fu verso di scamparla che non c’era neanche la nonna da cui riparare. Però a lacrime finite ripensò a quella dea in bikini e pensò che ne era valsa la pena, anche se per tutta l’Estate non poté più allontanarsi dall’ombrellone oltre i venti metri che mamma lo guardava storto e faceva le facce brutte.
Infine scoprì che quella gazzella corvina usciva con uno grande che già si faceva la barba tutti i giorni, e il cuore riprese la via e si guardò attorno e saltò da questa e da quella, e c’erano le amiche delle sorelle che magari lo volevano ma lui niente, non si mise mai con una che già lo voleva, lui doveva patire e soffrire e doveva essere il cavaliere della valle solitaria, infatti correva dietro quelle grandi che gli davano il due di picche, di essere simpatico era simpatico, ma con questa storia che potevano essere solo amici se lo liquidavano.
Poi un giorno fuori dalla classe seconda D della media Ugo Foscolo durante la ricreazione incrociò lo sguardo con una che era un peperino, tutta rossa in viso con le guance come due pomodorini e il sorriso- ah, quel sorriso – che era una di quelle lame di luce della sua stanza quando faceva giorno, e lo fissava svergognata e lui si fece tutto il grande e poi si conobbero e l’indomani le portò il cornetto e lei lo accettò e prima di chiudere la porta della classe gli mandò un bacio soffiando sulla mano e lo colpì proprio in fronte con una mira degna di Clint. Allora per tre mesi fu corte di quei tempi, una corte in bianco e nero, lui finiva i compiti e le passava sotto casa trenta- quaranta volte, faceva brevi giri del rione ferrovieri e poi tornava, fin quando lei compariva alla finestra e allora ciao ciao con la mano, ed era meglio di quando aveva vinto la medaglia nella corsa, era meglio di quando aveva pescato il primo pesce, o di quando aveva segnato un gol di testa che nessuno sa come ci era riuscito perché continuava ad essere alto un metro e un barattolo. Continuarono quei ciao-ciao con le manine, e quel sorriso come a promettere il cielo, fin quando lui non prese una di quelle pietre aguzze che usava per giocare a “ciappe” e nel palazzo di fronte alla casa di lei incise nel muro un cuore gigante, un cuore più grande di lui, e lo fece così in profondità che durò più di quarant’anni e ogni tanto passava a guardarlo quando era in fase nostalgica e riprovava quella tenerezza, e quella sensazione di fiducia nella vita, e quel sentimento allo stesso tempo mite ed esplosivo che i poeti chiamano amore.
Così le fece la dichiarazione. E lei si capiva che avrebbe detto sì, ma allora la risposta non si dava subito, dovevi aspettare qualche giorno, e furono giorni di struggimenti, di fare solitari a carte o sfogliare margherite, e pensare sempre e solo a lei, e a come si sarebbero sposati e sarebbero stati insieme tutta la vita in Via Marina a riguardarsi il mare.
Quel Sabato rispose, sì scemino, disse, sono la tua ragazza, e lui sentiva le campane nella testa e allora presero la bicicletta, una Graziella bianca, e lei salì dietro, tutta lunga in piedi, e gli poggiò le mani sulle spalle e lui avrebbe pedalato fino a Roma con quei carboni accesi accanto al collo, invece se andarono nei giardini sopra il rione passando per un sentiero di terra, e poi, come nella canzone di Battisti, lasciarono la bicicletta per terra, e scherzarono e risero, e si diedero una carezza, poi lei divenne seria-seria, lo guardò negli occhi e lui allora la strinse, e non sapeva come fare, ma poi lo fece, e avvicinò piano piano le labbra, e sentì quella bocca sulla sua, e fu un giardino di delizie, fu la felicità, e pensò che null’altro nella vita gli avrebbe più dato tanta gioia, ed ebbe ragione, adesso che è quasi vecchio lo sa che aveva ragione, che il primo bacio è il primo bacio, non è una canzoncina stupida, non è una poesia di Prevert, non è una notte con Mistinguette, è soltanto un bacio, ma contiene tutti i segreti del mondo.
Tornarono a casa con la bici, lei dritta dietro e lui a pedalare, da una macchina usciva una musica che parlava di miele e di fughe e di ritorni lenti come tartarughe, e lui ancora sorride.
Dopo quattro mesi la lasciò, per chissà quali oscuri motivi. Il cuore è uno zingaro, e va.