IL CINEMA e LA CALABRIA. Dal 47 al 54, da Prestifilippo e Ruffo a Caronia

IL CINEMA e LA CALABRIA. Dal 47 al 54, da Prestifilippo e Ruffo a Caronia
carnein Tra il’47 e il ’54 si apre e si chiude   una stagione  cinematografica produttiva di dodici film ambientati nella nostra regione, di cui  tre documentari e tre film prodotti con capitali, attori e registi calabresi: Appuntamento sullo stretto (’47), Cuore d’Aspromonte (’49), Terra senza tempo (‘50) e “Carne inquieta”(‘52) di Silvestro Prestifilippo.  SOS Africo (’50) e Tempo d’amarsi (‘52) di Elio Ruffo.

Di produzione “romana” gli altri  film: Patto col diavolo (’49) di Luigi Chiarini, Il lupo della Sila (’49) di Duilio Coletti, Il sentiero dell’odio (‘51)di Sergio Greco, Il brigante Musolino (’50), Il tenente Giorgio (‘52) di Raffaello Matarazzo e II Brigante di Tacca del Lupo (’52) di Pietro Germi (’52).  

In particolare Carne inquieta è stato prodotto dalla Paolo Montesano film di Reggio Calabria.

Se per Mario Camerini, Raffaello Matarazzo, Pietro Germi e Sergio Grieco i film citati rappresentavano   una parentesi “southtern” calabrese per sfruttare la scia del successo mondiale de Il lupo della Sila, diverso era l’obiettivo di Luigi Chiarini che, accettando di girare Patto col diavolo con la sceneggiatura di Corrado Alvaro, voleva proporre una forma diversa di neorealismo, ma non ha avuto  molta fortuna.

I due calabresi Prestifilippo e Ruffo (Prestifilippo in realtà era siciliano di Caronia, ma amava in particolar modo la Calabria), rimarranno purtroppo  intrappolati e stritolati dagli ingranaggi di una produzione e da altri esordi (Antonioni, Fellini, Lizzani, Rosi, Pietrangeli, Bolognini e altri) che non concederanno  molti spazi, in quanto “molti esordienti si presentano già in perfetta forma per una corsa  sulla lunga distanza, mentre   altri hanno il fiato e la preparazione sufficiente a portare a termine il loro giro completo e unico di pista”( Gian P. Brunetta)

In quanto  alla Calabria  il cinema italiano di quel periodo le   “assegnò” un ruolo già predefinito: quello del brigante.

Dall’unità d’Italia in poi briganti  ed emigrazioni hanno fissato – e fissano ancora oggi-  l’immagine di “una terra  incompiuta ed in viaggio” nel tentativo di abbracciare la propria ombra, l’Identità, senza riuscirci: “se infatti l’identità è consapevolezza del sé in rapporto agli altri – scrive Vito Teti - per la Calabria è stata, molte volte nel corso della storia, senso e immagine di sé in contrapposizione agli altri, intesi anche come abitanti dello stesso paese o in quelli limitrofi”..

Già, nel dopoguerra, l’Italia  entrava nel vortice della   mutazione antropologica e di costume anticipato dal film Riso Amaro (’48) di Giuseppe De Santis e narrato da Pier Paolo Pasolini attraverso il documentario Comizi d’amore (1965) e “scritti sparsi”; una alterazione conseguente   ad    una “civiltà industriale” che marciava a grande velocità meno che in Calabria. E Pasolini rappresentava questa condizione nel 1959 quando, per la rivista “Successo”, percorreva la Calabria per scrivere   il reportage La Lunga strada di sabbia. Quando arriva a Cutro scrive: “È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi film western”. Una rappresentazione che,  se da una parte  provocava polemiche e denunce, dall’altra gli consentiva di ricevere, in contrapposizione,   il Premio “Città di Crotone” per il romanzo Una vita violenta, dopo aver chiarito agli intellettuali crotonesi che “banditi” andava tradotto come “emarginati”. E quindi “Sono felice di non aver vinto lo Strega o il Viareggio- dichiara Pasolini nel ricevere il Premio-i protagonisti del mio romanzo, anche se vivono nella capitale, appartengono al Mezzogiorno d’Italia, ed era giusto che qui a Crotone trovassero la giusta comprensione”. Ma in una missiva privata indirizzata al dottor Pasquale Nicolini, ufficiale sanitario del Comune di Paola, che gli aveva chiesto del perché aveva definito “banditi” gli abitanti di Cutro, Pasolini era stato più esplicito. Infatti, se da una parte scrive: “Non è colpa vostra se siete poveri, ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso. E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, Taranto e Brindisi.   […] Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro ‘complesso di inferiorità’, della vostra psicologia patologica, della vostra angesi o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato”; dall’altra però consiglia di “non cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà”.

Un consiglio che mi permetto di estendere  anche a chi, ancora  oggi, continua a volgere  la testa  all’indietro per decantare un passato remoto che nessun contributo fattuale potrà dare  per superare  le difficoltà del  presente, né per programmare un futuro, perché quel passato ha solo valore storico-museale.



Ma Pasolini non dimentica la Calabria e torna proprio nel crotonese per girare Il Vangelo secondo Matteo (1964), portando al successo Ninetto Davoli, e scegliendo la giovanissima  Margherita Caruso  per la parte della Madonna (“ho fatto i provini in Calabria con N. Davoli e anche a Roma alla presenza di Morante, Moravia, Siciliano, Maraini”)  e valorizzando il paesaggio di un territorio  crotonese ancora intatto e di grande fascino. E, qualche anno più tardi, riesce  anche nell’intento di dare corpo identitario alla Calabria doppiando con la cadenza del dialetto calabrese, rivelandone  la musicalità e la leggerezza,  alcuni  personaggi de Il fiore delle mille e una notte (1974), film con il quale viene idealizzato e mitizzato quel “Terzo Mondo” dal quale si sente  particolarmente attratto.

Qualche anno prima il paesaggio crotonese aveva costituito lo  sfondo d’azione per il film Il Brigante (1960) di Renato Castellani, tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Berto. Un film di notevole impegno produttivo con una memorabile sequenza dell’occupazione delle terre, di cui il regista andava molto orgoglioso. Quell’occupazione che Prestifilippo riesce a mettere in scena con Terra senza tempo, qualche anno dopo che la stessa operazione era fallita a Giuseppe De Santis, nel tentativo di portare sullo  schermo I fatti di Melissa del ’49 (Noi che facciamo crescere il grano), che hanno provocato  tre morti e tantissimi feriti nel fondo di Fragalà e, qualche anno prima, l’uccisione di Giuditta Levato nelle terre  di Calabricata.

De Santis non riuscirà a girare il film, al quale avevano collaborato anche Corrado Alvaro e Fortunato Seminara, per motivi  politico-governativi; mentre  l’operazione riuscirà a Prestifilippo  perché nel finale l’occupazione delle terre si scioglie nella commozione di alcuni avvenimenti che portano alla pacificazione tra la proprietà terriera e i braccianti.

La Cineteca della Calabria ha reso omaggio ai  morti di Fragalà e al tentativo non riuscito di Giuseppe De Santis con il docufilm Melissa49/99, realizzato da Eugenio Attanasio e Giovanni Scarfò con la collaborazione e il contributo di attori calabresi, del Comune di Melissa, della Provincia di Crotone e degli abitanti di Melissa.

Il merito di Prestifilippo e Ruffo è stato quello di  aver fatto una scelta cinematografica che rifiutava di cavalcare  la “tematica dei briganti e dei lupi della Sila”, di sicuro ritorno economico, per dare spazio cinematografico  ad un  condizione  sociale  calabrese che  richiamasse  l’attenzione del  resto d’Italia verso  una Regione il cui destino di abbandono sembrava ormai segnato.  Il loro tentativo naufragò non solo e soltanto per motivazioni produttive e di critica cinematografica – non erano stati pochi infatti gli apprezzamenti e gli incoraggiamenti, a parte quella più ideologizzata  - ma anche perché sul loro lavoro aleggiavano sempre gli echi  di una opinione pubblica calabrese  “trasversale”, sia in senso politico che socio-economico, la quale,  “di fronte alla testimonianza sociale della propria terra,  s’indigna come di un’offesa fatta loro direttamente, non nei riguardi di coloro che cagionano  o permettono quelle situazioni, ma nei riguardi di coloro che li denunziano”, scriveva Mario La Cava in occasione della morte di Elio Ruffo, nel 1972.