
Ci sono tre realtà per le donne in Calabria: essere parte di una famiglia mafiosa, essere vedove di uomini uccisi dalla mafia, essere esse stesse vittime della criminalità.
Un bel lavoro sulla terza realtà, che si rivela sconcertante, è quello condotto dall’Associazione da Sud e che ha portato a una pubblicazione, che si trova on line, dal titolo: “Sdisonorate. Le mafie uccidono le donne.” Lo sconcerto viene dal fatto che le donne vittime della ‘ndrangheta sono state tante. Basta dare una scorsa alla ricerca e ci si rende conto che non sempre si parla a proposito di questo.
Ma noi, per quanto concerne la Calabria, vogliamo allargare il discorso. E dire che una donna deve prima misurarsi con gli uomini e poi con quel tipo di società, che non ti dà alcuna opportunità. E alla fine deve lottare, al pari degli uomini, anche solo per una parvenza di vivere civile. Perché il discorso, è inutile, alla fine va a parare nell’assenza di una economia produttiva, che produce, questo sì, un tessuto sociale assente.
Se patisci un sopruso, se sei vittima di un abuso non sai a chi rivolgerti, se ti ci rivolgi resti insoddisfatta perché non c’è responsabilità, ognuno ha le sue diremmo impostazioni di vita, i propri principi che diventano universali, perché non trovano alcun confronto e concorrenza con altri come avviene in altre società o ambienti sociali che li fanno evolvere fino a diventare competitivi.
E qui il discorso si allarga ancora. Un ragazzo che voglia fare cinema, una donna che voglia diventare manager, uno studente che voglia creare innovazione o fare ricerca si scontra con un muro invisibile che è l’assoluta desertificazione mentale di chi gestisce potere ed economie e ha reso il territorio spoglio di coscienze.
Ecco, diciamolo apertamente perché si sa: il potere e l’economia nella nostra regione è gestita dalla criminalità. Non ci sono sacche legali, o meglio ci sono isole di legalità ma che trovano terreno a valle dei problemi e non incidono sul tessuto sociale. E non c’è all’orizzonte una qualche parvenza di imprenditorialità sana, che possa provare a creare un tessuto produttivo dal quale è impossibile prescindere se si vuole cambiare. Fino a quando non succederà questo, niente cambierà.
Ripetiamo: è un problema di responsabilità. Ognuno è irresponsabile delle sue azioni. Ogni ruolo sociale è importante, in quanto definisce un tassello di un contesto che funziona anche per quello, come un ingranaggio dove anche una piccola vite è essenziale. Ecco, in Calabria niente è essenziale, ognuno fa quello che vuole. Chi cerca di mettere in crisi la logica criminale e corruttiva, viene fatto fuori facilmente, perché non trova struttura sociale che sia solidale con lui in quanto rappresenta la legalità,
Ci sono tante storie di donne, come abbiamo detto all’inizio, che hanno cercato di offrirci uno spunto, una traccia di cammino per la liberazione. Forse il là, il punto di partenza lo ha dato una non calabrese, quella mamma Casella che sfidò da sola, proprio da sola fisicamente, la criminalità nel suo stesso bellissimo e crudelissimo territorio. E fu seguita da tante donne che capirono l’importanza dell’essere madri per figli senza futuro. Da allora, molte donne (calabresi) hanno cercato di immaginare una vita “normale”, ma non ci sono riuscite. Hanno cercato di mandarci dei segnali. Ma noi non li cogliamo. Neppure quando una giovane vita viene stroncata dall’aberrante fatto che porta un cognome pesante. Questo, e solo questo, è orrore puro.
*scrittore