Giovedi pomeriggio l’atleta messinese sembrava tagliato fuori definitivamente dalla classifica generale. La sua condizione fisica era al lumicino, il suo morale da ritirata in Russia. Sin dall’inizio della corsa rosa i suoi tentativi di prendere il sopravvento erano stati patetici. Lo stereotipo del declino. Il vecchio leone spompato, pensavamo tutti. Scatti timidi, raggiunto, superato, staccato.
Impietosamente le telecamere si soffermavano sulla sofferenza del suo pedalare. Il ciclismo è dolore contenuto. Uno sport antico nei movimenti, sempre uguale nonostante la tecnologia, uno sport di incudini e di tanti, tantissimi, “vorrei ma non posso”. Superato dal giovane palestrato Kruijswijk, olandese, le spalle larghe come lottatore, viso da attore e grinta da cow-boy. Superato dal sorriso candido di Chavez, columbiano, uno scricciolo scalatore con l’agilità delle antilocapre e la voglia di riscatto dei paesi poveri in corpo. Superato dal campione iberico Valverde, tatticamente furbo come un torero e col palmares dei migliori a far da vela.
Venerdi, sulla salita del colle dell’Agnello che ha pendenze da supplizio, Nibali tocca il punto più basso della sinusoide. I tre rivali se ne vanno. Vincenzo il messinese perde dieci metri. Sulle sue gote si forma la fessura che collega all’inferno della sconfitta. Chi ha pedalato qualche volta sa cosa è quella bocca aperta che cerca aria; sa cosa sono i coltelli che entrano nei muscoli, cosa si prova ad avere la schiena trafitta dalla ferocia della fatica e dei limiti fisici. Guarda la schiena dei tre. Venti metri. È finita, pensiamo tutti. Dieci metri, venti metri. Con quelle pendenze, un’eternità. Vederli così vicini, saperli così lontani. Poi, , come le correnti di quello Stretto che Nibali possiede nel suo patrimonio genetico, tutto cambia.
Mulinando con progressione leggera, il campione risale la china. Riprende le ruote dei tre. Mastica dolore e sputa rabbia. Non cede. Pesta su quei pedali. Tritura il terreno. Pedalata lunga. È impazzito, va in testa. I tre Proci aprono la bocca. Spalle larghe traballa. Il torero cede come un albero schiantato. Inizia la discesa e Nibali annusa la sua gioventù spericolata. Tutti sanno che nelle picchiate è Steve McQueen. La sua bici dipinge traiettorie. L’olandese muscoloso in debito d’ossigeno si schianta contro un muro di neve. La Dea Fortuna aiuta gli audaci, come sempre. Nibali e Chavez volano. Ultima salita e il messinese fa l’airone. Non scatta, non improvvisa. Usa un padellone come cambio e aumenta la velocità. Decolla come un fagiano. Pian piano. Chavez arranca. Perde il sorriso. Nibali vince la tappa e piange. Secondo in classifica. Non finisce qui. C’è da completare l’opera.
Sabato. Tre montagne all’orizzonte. 44 secondi per la Maglia Rosa finita addosso al colombiano. Nibali è serio come una roccia. I compagni di squadra lo proteggono come chiocce. Lo portano in carrozza alla penultima. Danno il ritmo che screma il gruppo. Poi, l’impresa.
Nibali pedala seduto sul trono del più forte. Ogni giro di cambio è una coltellata nelle gambe degli altri. Lui va dritto, gli altri barcollano ubriachi di fatica. Taglia l’aria tra i tifosi impazziti, alla ruota la Maglia Rosa con la bocca che è un buco nero. Il messine non scatta. Accelera lentamente. Progredisce. Non scala una montagna: la appiana. Il colombiano cede. Si difende con la disperazione del suo patrimonio genetico. Nibali è l’aquila ormai. Lontana e in volo. Non lo prende più. Discesa alla Vasco Rossi, e poi ultimi chilometri di Calvario. Per gli altri. Per lui è vita quotidiana. Andare a comprare il latte. Portare la posta. Corteggiare una ragazza. Giocare a nascondino. Dietro è tortura.
Arriva. Un minuto e trenta di distacco. Quanto basta per vincere il Giro d’Italia. Il Sud Italia balla tarantelle e rock scatenati. A Messina sono pazzi di gioia. Gli sportivi gongolano. Gli esperti godono. Tutti italiani, nei giorni di gloria sportiva.
Una maglia biancoceleste al comando. No, non è Fausto Coppi. È il messinese Nibali, lo squalo dello Stretto, che si conferma campione di ciclismo e vince, nel più romantico ed epico dei modi, la sua quarta grande corsa a tappe. Brindiamo con gli occhi lucidi alla vita, e alla possibilità di ribaltare il destino: un lampo e un tuono e tutto cambia, come sostiene uno scrittore calabrese e come Vincenzo Nibali ha ampiamente dimostrato.
Tutti a pedalare, adesso.