In questi giorni si sta diffondendo la proposta di ripopolare i piccoli centri che nel nostro Paese non mancano. Proposta ovviamente condivisibile, ai limiti populistici del banale: chi di noi che magari abita nella zona periferica di qualche grande città non vorrebbe scappare dall’inquinamento e dalla disumanizzazione, dall’esasperata densità popolare e dal traffico, dal corona virus? Ora che sta arrivando l’estate e le vacanze sarebbe una bella prospettiva.
I piccoli borghi non mancano in ogni regione italiana ma sono oggi sempre meno popolati venendo meno la popolazione anziana che storicamente li ha abitati. Ecco dunque la proposta: bella, perfetta. Perfetta? Non proprio.
Perché il problema non è tanto abitare questi luoghi quanto piuttosto viverli e molto più banalmente cosa mettere in tavola a pranzo e a cena. Perché se una famiglia ha un certo tenore di vita sicuramente in cambio di tutta questa bellezza non avrà problemi a mantenere i propri standard o ritagliarsi il tempo per fare le commissioni o portare a scuola i figli magari a molte decine di chilometri. Diverso è il tema dei servizi per queste comunità: impossibile pensare che in questi borghi rinascano poste, uffici, banche, scuole, negozi di alimentari, rinascano magicamente infrastrutture lungamente abbandonate, rinasca insomma tutta una quotidianità che sistematicamente in questi decenni è stata erosa da politiche e da approcci che hanno largamente preferito altri orizzonti, allargando periferie metropolitane, creando quartieri dormitorio, concentrando le aree industriali a loro volta oggi largamente delocalizzate altrove per qualche centesimo in più di guadagno.
Tutto come sempre anche nella ricostruzione delle comunità e dei piccoli centri deve passare dal lavoro, lo sapeva bene uno dei nostri grandi poeti, Rocco Scotellaro, originario di Tricarico, nella vicina Basilicata: il lavoro, quello più duro ma anche più vero, il lavoro della fatica, era la base dell’umanità che tanto ha cantato nei propri testi:
[…] Abbiamo il collo duro, la faccia
di terra abbiamo e le braccia
di legna secca colore di mattoni.
Abbiamo i tozzi da mangiare
insaccati nelle maniche
delle giubbe ad armacollo.
Dormiamo sulle aie
attaccati alle cavezze dei muli. […]
Perché il tema dei piccoli borghi non diventi insomma solo argomento di discussione di qualche agiato imprenditore o di qualche scrittore nostalgico bisogna avere il coraggio di riportare il lavoro anche nelle zone periferiche d’Italia.
Le possibilità non mancano, si pensi a tutto il comparto agroalimentare dove le eccellenze caratterizzano ogni nostro territorio, eppure soprattutto in questo momento in cui parte della manodopera proveniente da altre nazioni è venuta meno assistiamo da un lato ad una sostanziale difficoltà a reperire lavoratori del comparto (difficile da credere con l’aumento delle fragilità economiche), ma assistiamo anche a un settore distributivo che continua a privilegiare prodotti provenienti in parte o completamente da altre realtà anche extraeuropee (perché spesso facendo la spesa troviamo nei nostri banchi peperoni spagnoli piuttosto che quelli siciliani, ma altrettanto vale per l’aglio o la cipolla, produzioni estese anche nel Nord-Italia, perché parte della frutta deve arrivare dal Sud-America attraversando metà esatta della terra?
E ci sono nodi ancora più spinosi dove forse sarebbe davvero arrivato il tempo di un maggiore coraggio: pensiamo ad esempio alle materie prime, pensiamo a principi attivi farmaceutici che hanno anche un secolo di vita ma che oggi sono importati quasi esclusivamente dall’Oriente. Evitare che soprattutto in questo periodo di crisi globale queste sostanze diventino irreperibili, sostanze quasi sempre di sintesi pura, che non hanno quindi necessità di particolari materie prime, significherebbe portare lavoro e sicurezza sanitaria a un paese come l’Italia che in passato sia nella chimica che nella farmaceutica ha saputo ritagliarsi un ruolo importante.
Sarebbe l’opportunità (la piccola industria agroalimentare, chimica, farmaceutica) per riconvertire le tante fabbriche abbandonate che proprio vicino a questi borghi rimangono come scheletri della nostra incapacità di creare un tessuto vasto nel quale vivere. Queste industrie garantirebbero lavoro, infrastrutture, servizi sociali, garantirebbero questo sì nuova vita, magari con un approccio industriale nuovo, più green, con più attenzione al contrasto dell’inquinamento rispetto anche solo al recente passato.
Il tema insomma non è che qualche abbiente compri casa nei nostri borghi (e’ gia’ avvenuto da noi ad esempio a Badolato) ma che con quella fatica di cui ci ha parlato Scotellaro si ripopolino i paesi, si ripopoli più umanamente l’Italia e questo sì sarebbe qualcosa di splendido.