Le recenti elezioni presidenziali negli USA hanno dimostrato che il grado di polarizzazione politica di quel paese ha raggiunto livelli forse mai conosciuti prima. O, perlomeno, che la spaccatura tra i sostenitori e gli elettori repubblicani e quelli democratici è molto più preoccupante che in passato, ciò in quanto esprime più una visione agli antipodi dell’ordinamento politico e sociale nel suo complesso, che una semplice diversità di vedute sui grandi temi politici e sulle soluzioni da dare ai problemi. Se a questa particolarità aggiungiamo il fatto che ci sono diversi gruppi estremisti, nella stragrande maggioranza di destra, armati non solo di idee ma anche di fucili e pistole, e che hanno dimostrato di non avere remore ad usarli, abbiamo un quadro inquietante e preoccupante. Sulle ragioni di questa spaccatura verticale, che, tra l’altro, riguarda non solo gli USA, ci sono tante teorie. Certamente, l’utilizzo massiccio delle piattaforme digitali dei social media, col suo corredo di hate speech e fake news, ha dato un contributo notevole al fenomeno che stiamo osservando. Ma il discorso è lungo e qui può essere solo accennato.
Voglio invece in questa occasione soffermarmi su una questione sulla quale i due schieramenti si trovano sulla stessa lunghezza d’onda, anche se per motivi diversi. Mi riferisco alla paventata cancellazione e/o revisione sostanziale della famosa Sezione 230. Vediamo innanzitutto di cosa si tratta.
La Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996, in sostanza, esonera le piattaforme dalla responsabilità per ciò che i loro utenti pubblicano e consente loro di moderare il contenuto dei loro siti come desiderano. Essa, si può dire, ha dato forma a Internet per come lo conosciamo oggi, e il comma di essa che ci riguarda consta di sole ventisei parole: "Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi".
Su questa regola, concordano in molti, si è costruita la fortuna dei social network, e per molti è la legge più importante su Internet. Il comma è stato inserito agli albori dell'ascesa globale della rete e di fatto sancisce che le piattaforme non sono responsabili di ciò che viene pubblicato da altri su di esse. Non solo: dà anche alle società che le gestiscono ampia discrezione nel modo in cui moderano i post e gli altri contenuti.
Ma da dove ha origine questa regola? Jeff Kosseff lo racconta in “26 words that created the Internet”. In California, nel 1956, Un libraio vende un libretto erotico a due agenti sotto copertura. Viene denunciato e portato in tribunale perché ritenuto colpevole di diffusione di materiale osceno. Il libraio si difende: “Io quel libro non l'ho mai letto, non sapevo di che trattasse, come non so di cosa trattano centinaia di libri nel mio negozio".
Viene assolto, e il principio è stabilito: chi distribuisce contenuti non ha responsabilità sui contenuti stessi, altrimenti si violerebbe il primo emendamento della Costituzione americana. Da allora vale il principio che regola i distributori di contenuti di terze parti, anche oggi che sono per lo più digitali.
La guerra di Trump e dei suoi accoliti ha come obiettivo quello di limitare il potere dei social, che attraverso i loro moderatori intervengono sui contenuti etichettandoli come imprecisi, dannosi, o addirittura falsi. Trump, a dire il vero, ha subito lo stesso trattamento anche in televisione, quando è stato privato della parola mentre si scagliava contro i presunti brogli dovuti soprattutto, a suo dire, al voto per posta. Ma il corpo a corpo era iniziato già da tempo, con Twitter soprattutto, ma anche con Facebook. Per questo motivo, il presidente in carica fino al 20 gennaio 2021 ha tentato in tanti modi di mettere la museruola ai social media e alle piattaforme. Il suo problema non è il linguaggio d’odio o la disinformazione. Molto più prosaicamente, Trump non accetta che i cinguettii o i post suoi e dei suoi sostenitori, spesso imperniati su notizie false o su interpretazioni di fatti manipolate per suscitare odio nei confronti di determinate categorie, possano essere segnalati o addirittura cancellati.
Da qui, la voglia di rappresaglia, e l’intenzione di cancellare la norma di salvaguardia contenuta nella sezione 230.
Biden, dal canto suo, pur muovendosi nelle strette maglie del primo emendamento che scolpisce la libertà d’espressione, non ha mai fatto mistero della sua scarsa simpatia nei confronti dei colossi BIG TECH. Troppo potere, e troppo concentrato. Troppe fake, troppa sorveglianza sugli utenti e scarsissima trasparenza nell’utilizzo dei dati. Anche Biden e i democratici, per questo, sono determinati a intervenire in questo campo, con l’intento di dare impulso all’informazione di qualità, basata sul fact checking, sulla professionalità, sull’accuratezza, consapevoli che il futuro della democrazia liberale si gioca anche (forse soprattutto) sull’utilizzo della tecnologia.
Sul tema è intervenuta di recente la EFF (Electronic frontier foundation), che sul problema ha un’idea tutta sua. Secondo la EFF, le proposte di riforma dell’una e dell’altra parte non affronterebbero efficacemente i problemi sul tappeto. Se gli esponenti democratici e repubblicani sono preoccupati per l'influenza sproporzionata delle grandi piattaforme di social media, dovrebbero affrontare in primis la mancanza di una concorrenza significativa tra quelle piattaforme, e poi il fatto che esse riescono a non consentire agli utenti di controllare o addirittura di vedere come stanno utilizzando i loro dati. Senza la Sezione 230, in sostanza, su internet ci sarebbero meno spazi di libertà per esprimere e condividere le proprie opinioni. I social media non esisterebbero, almeno nella loro forma attuale, e nemmeno importanti piattaforme educative e culturali come Wikipedia. Il rischio legale associato alla gestione di un tale servizio scoraggerebbe qualsiasi imprenditore dall'avviarne uno, per non parlare di un'organizzazione no profit. Secondo la EFF, è diventato di moda incolpare la Sezione 230 per gli errori delle società del web, ma la sezione 230 non è il motivo per cui cinque aziende dominano il mercato o perché le decisioni di marketing e le analisi del comportamento che guidano le pratiche di Big Tech sono così spesso opache per gli utenti. Una recente udienza al Congresso con i capi di Facebook, Twitter e Google ha dimostrato la natura altamente politicizzata delle critiche ad esse indirizzate. I repubblicani hanno rimproverato le società per aver "censurato" e controllato i fatti conservatori, mentre i democratici hanno chiesto di fare di più per frenare dichiarazioni fuorvianti e dannose.
In effetti, è un problema che solo poche aziende tecnologiche esercitino un immenso controllo su quali messaggi sono consentiti online. Ed è un problema che quelle stesse aziende non riescano a far rispettare le proprie politiche in modo coerente o non offrano agli utenti l'opportunità di ricorrere contro decisioni di moderazione sbagliate. Tuttavia, cercare di legiferare nel senso che le piattaforme moderino "in modo neutrale" creerebbe un immenso rischio legale per qualsiasi nuova piattaforma di social media, finendo con l’alzare, piuttosto che abbassare, la barriera all'ingresso di nuovi concorrenti. Se Twitter e Facebook dovessero affrontare una seria concorrenza, le decisioni che prendono su come gestire (o non gestire) i discorsi d’odio o la disinformazione non avrebbero l'influenza che hanno oggi. Se esistessero venti principali piattaforme di social media, le decisioni che ognuna di esse prende per ospitare, rimuovere o verificare i fatti non avrebbero lo stesso effetto sul discorso pubblico complessivo. Internet è un posto migliore quando possono coesistere più filosofie di moderazione, alcune più restrittive e altre più permissive. Secondo la EFF, ulteriori riforme alla Sezione 230 renderebbero più difficile competere con Facebook o Twitter. A dimostrazione di ciò, Facebook è stata una delle prime aziende tecnologiche ad approvare SESTA/FOSTA (The Stop Enabling Sex Traffickers Act of 2017 (SESTA) e Fight Online Sex Trafficking Act (FOSTA or H.R.1865), la legge del 2018 che ha minato in modo significativo le protezioni della Sezione 230 per la libertà di parola online. Qualsiasi legge che renda più difficile per una piattaforma mantenere lo scudo di responsabilità della Sezione 230 renderà anche più difficile per le nuove startup competere con le Big Tech. (Solo poche settimane dopo che SESTA / FOSTA è stato approvato, mettendo fuori mercato più siti di appuntamenti, Facebook ha annunciato che stava entrando nel mondo degli appuntamenti online).
Secondo la EFF, bisognerebbe intervenire non sulla sezione 230, ma aggiornando la legge antitrust per fermare il flusso di fusioni e acquisizioni che hanno reso pressoché impossibile la concorrenza nella Big Tech. Le fusioni, per essere approvate, non dovrebbero aumentare il loro potere di monopolio o danneggiare indebitamente la concorrenza. Ma l'aggiornamento della politica antitrust non è sufficiente. Le principali piattaforme di social media prosperano grazie a pratiche che tengono gli utenti all'oscuro di quali informazioni raccolgono su di essi e di come vengono utilizzate. Le decisioni su quale materiale (inclusa la pubblicità) fornire agli utenti sono basate su una rete di inferenze sugli utenti. Esse sono impossibili da vedere per gli utenti, figuriamoci corrette.
A causa del legame tra le politiche di moderazione dei social media e la loro gestione irresponsabile dei dati degli utenti, non si possono migliorare le pratiche delle Big Tech senza affrontare i loro modelli basati sulla sorveglianza. E sebbene le grandi aziende tecnologiche abbiano approvato modifiche alla Sezione 230 e potrebbero approvare ulteriori modifiche in futuro, probabilmente non sosterranno mai una legislazione reale e completa sulla protezione della privacy.
Inoltre, le norme sulla privacy devono prevedere un diritto individuale e privato di azione: se un'azienda infrange la legge e viola diritti alla privacy, non è sufficiente incaricare un'agenzia governativa di far rispettare la legge. Gli utenti devono avere il diritto di citare in giudizio le società e non dovrebbe essere previsto di firmare per tali diritti in un contratto sui termini di servizio.
In conclusione, secondo la EFF i repubblicani criticano le Big Tech per presunta censura dei conservatori, i democratici sostengono che le piattaforme online non fanno abbastanza per combattere i discorsi d’odio, ed entrambe le parti sembrano sempre più convinte di poter cambiare le pratiche dei social media minando la Sezione 230. Ma le paventate modifiche ad essa proteggeranno ulteriormente alcune grandi aziende tecnologiche da una concorrenza significativa, il solo strumento efficace per frenare le azioni non controllate e opache sui dati degli utenti. Insomma, le perplessità sono tante e fondate. L’unica certezza è che lo status quo non è sostenibile. Per questo motivo, presto o tardi, repubblicani o democratici al governo, il potere dei colossi della tecnologia e dei social media dovrà essere limitato in maniera significativa.