di ANTONIO CALABRO' -
La televisione generalista, quella che ha ammaestrato come tante scimmiette interi popoli, segna il passo e si avvia verso il suo tramonto e la sua scomparsa. Definitivamente sepolto il sogno educativo, dietro al quale spesso si sono celati meccanismo occulti di controllo e persuasione, tramontata l’idea di poter realizzare cultura alternativa, assorbita con cruda consapevolezza la conclusione che il messaggio risiede nel mezzo stesso , ecco che, come spesso accade, tecnologia, creatività e coraggio sparigliano ogni combinazione e ripropongono nuove vie alla trasmissione di idee, concetti e storie.
Il racconto non è più televisivo; come già non era più cinematografico. Il racconto, con l’utilizzo delle nuove e multiformi piattaforme d’utilizzo, conquista il diritto di esser chiamato “Visivo”. Ma anche questo aggettivo è riduttivo. L’utilizzo della musica, maturato attraverso la successione di registi come Tarantino, non è più supporto audio, né integrazione alla vista, bensì diventa racconto a sua volta, realizzando quasi compiutamente quella sinestesia che proviene direttamente dalla mente splendidamente folle di Rimbaud prima e della Beat generation poi.
I dialoghi, serrati e con ampi riferimenti letterari, ispirati ai maestri della contemporaneità come Saramago, McCarthy, Palahniuk, sono sempre interessanti e traboccano concretezza. Le immagini, il montaggio, gli effetti, sono il risultato di decenni di cinema innovativo e filosofia della comunicazione con Barthes , Benjamin e Morin che fanno capolino.
I “Racconti Visivi” sono realtà cruda. Purificata da ogni intervento consolatorio. Liberata da ideologie e messaggi. Scremata da ogni tentativo di accattivarsi il pubblico con promesse suadenti e inganni. La giustizia non trionfa, l’amore non vince, non ci sono buoni o cattivi: l’uomo esce allo scoperto, insegue la sua disperazione nel ritrovarsi solo, scoperto e al buio nella notte epocale della morte di ogni fede.
La verità è una relazione che intercorre tra elementi in movimento costante. Nulla è statico, nulla è facilmente omologabile, se non per una caratteristica suprema, che domina i racconti e allo stesso modo domina la realtà: da ogni patologia nasce l’eroe moderno, che non uccide i cattivi, ma che smaschera l’intrigo giornaliero dell’oggettività. Gli eroi moderni, tutti, sono ammalati cronici, e non vincono nulla, se non la capacità di sopportare la morte senza ricorrere agli Dei.
In Italia si è partiti da “Romanzo Criminale”, che ancora risentiva della necessità politica di riscrivere storia e storie, e si è giunti a “Gomorra”, che non ha mai indugiato di fronte al consenso facile. Ma la novità viene da altrove. Alcuni esempi:
“I Borgia” è una serie storica che narra consolidati meccanismi del potere; “Il Trono di Spade”, banalmente trattato come Fantasy, è l’analisi (anche divertente) delle nefandezze compiute per il predominio, ed è una serie nella quale sono sbocciati i semi piantati nelle nuove generazioni da decenni di video sparatutto. I ragazzi si divertono quando un uomo viene fatto a pezzi, torturato, segato in due. E anche noi ci divertiamo.
“Breaking Bad” rincorre l’eterna domanda sulla relatività del bene; la malattia che spinge il protagonista alle sue tremende azioni è quella che fa tremare: il cancro. Ogni difformità è una scusa per ritrovarsi uomini, protagonisti della realtà, senza bugie. “True Detective” , l’ultimo in ordine di tempo, posiziona il male assoluto (e indiscutibile, per il momento) in un serial killer ispirato da motivi religiosi, che intervengono spesso in questi racconti, ma parte da protagonisti affetti da disturbi e fuori da ogni schema.
L’eroe è nudo. Ed è coperto dalle piaghe della condizione umana. Chi pensava che la consapevolezza fosse frutto dell’anima o di un qualsiasi mistero, è servito. La consapevolezza è un trucco della natura, il migliore, per avere un’alta considerazione della propria esistenza, e proseguire il corso della vita, come recita il detective impersonato da McConaughey. Darwin non è mai stato più felice.
E dalla malattia peggiore del neo millennio scaturisce anche la serie di maggior successo: “House of Cards”. La patologia si chiama solitudine, e non c’è cura possibile. È la dissoluzione di ogni forma comunitaria, di ogni possibile empatia, di ogni solidarietà, e non a caso trova albergo proprio nel luogo dove risiedono gli uomini più potenti del mondo: La Casa Bianca.
Il potere diventa così fonte di esistenza stessa, sostituisce ogni altra panacea, diventa catarsi e, in un batter d’occhio, disfa ogni appiglio per aggrapparsi a quella stantia umanità di cui ci siamo nutriti per millenni.
La nuova frontiera del racconto visivo è solo l’avanguardia di ciò che si compierà. Non c’è freno al tempo, e la storia è solo un modo per organizzare i fatti. Ma se i fatti vengono raccontati diversamente, si dovrà trovare, necessariamente, anche un nuovo modo per organizzarli, e per compiere le azioni relative. Un secolo d’indagine sulla realtà è bastato a far sbaraccare ogni idea, ogni valore, ogni riferimento. Siamo soli, la speranza è la grande truffa che finora ci ha sorretti, questa è la minestra, e quella è la finestra.
Ma la minestra, pure se è salata, vale il pranzo. Salata o insipida, questa è.
“Soltanto Rock’Roll”, sostenevano un gruppo di filosofi inglesi, “ma ci piace”. Avevano ragione.