di ANTONIO CALABRÒ - Il proverbio dice che “Ogni giorno in Africa un leone si sveglia e dovrà correre più veloce di una gazzella”. A Reggio Calabria, invece, ogni giorno un gay si sveglia e sa che dovrà correre più veloce dei bacchettoni che si oppongono strenuamente a garantire a tutti i diritti civili; ostili all’idea stessa di libertà.
Un diluvio di comunicati, di iniziative, di circoli convocati per congressi anti-gay, di predicatori di periferia che con le loro voci estatiche mettono in guardia dal peccato della sessualità; un esercito di teorici della castità, di crociati della vecchia famiglia ottocentesca, un falò perpetuo di ogni tentativo di rendere gioiosa la vita. Savonarola è tra noi, reggini, lui e suoi piagnoni resuscitano a corrente alternata ricordandoci che la vita è una miseria tragica e che prima o poi dobbiamo morire. Noi ce lo appuntiamo, ma a loro non basta. Devono convertirci per forza al piagnisteo perpetuo.
Così insistono. Tutte le mattine uno di loro si alza e sa che dovrà fare qualcosa contro la libertà di esistere. Un comunicato stampa, un incontro con le forze politiche, un’assemblea pubblica con improbabili scienziati che blaterano di teorie gender, un supplemento di catechismo convocato d’urgenza da sacerdoti curiosamente scismatici rispetto alla recente linea del nuovo papa in materia di tolleranza.
Ogni mattina, come un’ossessione compulsiva, come una paranoia radicata in profondità, un bacchettone si alza e si chiede: cosa potrò fare oggi per oppormi al terrore della modernità? Così si dà fare, provoca, insulta, con la furbizia malefica degli inquisitori cerca di svelare il demone dell’ateismo negli altri, mente sotto il cielo forte della trascendenza delle sue azioni; gli unici diritti civili validi sono quelli dettati al tempo in cui bruciò vivo Giordano Bruno; le leggi del loro presunto dio – estranee alla mitezza - sono ferree, non ammettono deroghe e discendono tutte dalla premessa fondamentale: il sesso, in ogni sua forma, è peccato mortale, se non fatto esclusivamente per procreare.
Nessuno naturalmente vuole convincerli del contrario; ciascuno è libero di scegliersi la disperazione che gli pare, e anche, dopo un po’ di tempo, libero di entrare in analisi, visto che il mondo è pieno di psicoterapeuti bravi. Il problema è la pretesa che la loro impostazione diventi legge. Perché in fondo questa avversione per i gay è un odio furibondo e malcelato per ogni apparato genitale, è incapacità di guardarsi nudi allo specchio, è insicurezza del vivere e trionfo della pulsione di morte.
Reggio Calabria, prima di subire l’ennesima catalogazione da parte della rimanente società civile, deve reagire a questa deriva piagnona e medioevale. I gay non c’entrano nulla. Sono i diritti di tutti a essere sotto accusa. Guai se Reggio dopo città dei boia chi molla, della ‘ndrangheta, della corruzione, dovesse diventare la patria dei bacchettoni e dei falsi moralisti. Anche sotto il cielo dello Stretto si fa all’amore e ci si vuol bene quanto in ogni altro posto, e cioè tanto.
E reagire vuol dire approvare al più presto il registro delle unioni civili, che sarà un piccolo passo verso la civiltà, verso l’apertura mentale, verso la tolleranza.
Altrimenti i neo seguaci di savonarola continueranno a dettare tempi e agenda. E ogni giorno un giovane reggino, per sottrarsi alla miseria di idee retrograde e di culture abiette, si alzerà sapendo che dovrà farsi la valigia per andare a vivere in posti più civili. Fin quando, tra qualche decennio, in città non resterà più nessuno, se non i gabbiani e loro, i fustigatori dei costumi, e le loro processioni da flagellanti.