La RECENSIONE. Fogli sparsi di Umberto di Stilo, Galatro, Edidisum

La RECENSIONE. Fogli sparsi di Umberto di Stilo, Galatro, Edidisum

distilo

Umberto di Stilo, classe 1935, cronista della «Gazzetta del Sud»  e di altri giornali, maestro di scuola, competente di dialettologia, autore e curatore di molteplici pubblicazioni, ha dato alle stampe in questo scorcio pandemico 2020 una miscellanea di lavori («Fogli sparsi», Gàlatro, Edidisum, pp. 184, € 20,00) che, come si legge in premessa, «pur trattando diversi argomenti» ha «un solo file rouge che porta dritto al paese nel quale sono nato e nel quale, per ponderata scelta d'amore, ho deciso di vivere» (p. 7).

Aggiungiamo che esistono altri elementi che, pur non dichiarati esplicitamente, avvolgono le diverse parti del libro: una lode struggente e comprensibile del tempo passato e una religiosità ecumenica e francescana, una sorta di amore primordiale per il prossimo e per tutti gli elementi del creato.

Spesso queste tendenze di fondo si intrecciano e danno luogo ad un precipitato testuale piacevole e interessante, arricchente per il lettore.

Segnaliamo, dalla complessa tela del volume, alcuni elementi particolarmente intriganti.

A scefrateja cu ddu cudi:  nella Calabria jonico-aspromontana zafrata, zofrata, zefrata, etc, etc, dal greco psaurada, a scefrateja di cui parla l'autore, è la lucertolina che si presenta con un handicap non da poco: la coda molto debole che si rompe al minimo urto. Altre volte, se minacciate dai predatori e afferrate per la coda, le lucertole riescono a sfuggire contraendo i muscoli caudali e tagliandosi da sole la coda. Ma la coda tagliata si rigenera nell'arco di qualche giorno e, a volte, se ne rigenerano due. In quel caso, a Gàlatro, si riteneva che l'animaletto dalla coda biforcuta fosse portatore di benessere e di ricchezza a chi riuscisse a catturarla e portarla a casa sua: «Per questo nei confronti di chi mostrava di vivere agiatamente, …, c'era sempre chi avanzava l'ipotesi che molto probabilmente aveva trovato il tesoro dei briganti o si era imbattuto con quella misteriosa e speciale lucertola che, dopo essere riuscito a catturarla, se l'era portata a casa» (p. 125). Ed anche l'autore del libro aveva intravisto su una pietra di fiumara la lucertolina a due code ed aveva cercato vanamente di catturarla: lei era sfuggita di pietra in pietra: «In quel continuo movimento mi inquietava sempre di più constatare che appena aveva cambiato posto  ed aveva raggiunto una nuova pietra, girava la testolina verso di me come se volesse sfidarmi, sfottermi, farmi capire che non  l'avrei spuntata  perché era più furba e più veloce di me» (p. 131); ma si era sotto il solleone estivo e ogni pensiero rischiava di trasformarsi in delirio.  

Posbìa: parola, ancorché sconosciuta al recensore, molto importante che indica una zuppa di granturco che «bollito in tutte le famiglie, sera della vigilia (5 dicembre, n.T.) di San Nicola, veniva deposta sul davanzale di una finestra perché durante la notte il Santo vescovo potesse più facilmente benedirlo urinandovi sopra» (pp. 24-25): la posbia veniva offerta dal clero nei periodi di carestia e serviva per poterne attenuare le conseguenze, come risulta dal catasto onciario del 1745(ib.).

Gioviddì di lardarolu: giovedì grasso era d'obbligo anche per i più poveri mangiare carne e, recitava il proverbio, cu non avi carni mpigna u fighgiòlu cioè, chiosa l'autore, chi non ha carne se la procura «dando in pegno il figlio, solitamente al macellaio presso il quale, a scomputo della carne presa per la famiglia, svolgeva mansioni di garzone» (p. 29). 

L'azàta: «I festeggiamenti di Carnevale si concludevano martedì grasso – martiddì di l'azàta - … - si 'toglie la carne' (…) avanzata e si conserva tutto ciò che è stato prodotto del maiale»(p. 34).

U bandituri: il banditore appartiene all'archeologia sociologica di piccoli e medi centri abitati della Calabria e di altre realtà regionali del Mezzogiorno e delle isole;  era il diffusore delle notizie (amministrative, commerciali, ricreative) che interessavano gli abitanti di un paese: «Aveva i punti stabiliti ove fermarsi per dare il bando e quando, col suo comportamento marziale li raggiungeva, dopo aver divaricato leggermente le gambe – nella certezza che assumendo una posizione più stabile la voce sarebbe stata più potente e più chiara – e avvicinando alla bocca la mano sinistra 'a conchiglia' per indirizzare la voce in una determinata direzione – provvedeva a diffondere l'avviso» (p. 88).

Giangùrgolo: è la maschera tradizionale calabrese vestito di «marsina, pantaloni gialli rigati di rosso, il corsetto rosso e il copricapo a cono ornato da una lunga penna di pavone» (p. 38); Di Stilo lamenta l'invasione di maschere straniere e chiede che gli educatori insegnino che «accanto al napoletano Pulcinella, al lombardo Meneghino e al veneto Pantalone, c'è pure quella del calabrese Giangùrgolo … insaziabile mangiatore di maccheroni» (ibidem).

Chiudiamo l'analisi del libro con due segnalazioni:

  • le ultime trenta pagine del libro sono dedicate allo scrittore Fortunato Seminara (Maròpati 1903-Grosseto 1984) col quale l'autore, dal 1962 alla di lui morte, ha mantenuto rapporti di stima e di sincera amicizia (p. 155); qui si raccontano decenni di vita della Fondazione intitolata a Seminara, di cui l'autore è stato parte importante, e il grande disamore verso la sua terra a seguito dell'incendio doloso di un casale in cui erano conservati libri e documenti assai rilevanti per lo scrittore.
  • Alle pagine 43-60 troviamo la storia di Antonio Pagani, giovane tenente galatrese morto a ventuno anni sul fronte trentino nel corso della Grande Guerra (pp. 43-60); prima di partire militare era stato allievo del liceo classi Campanella di Reggio e sodale del circolo cattolico reggino Francesco Acri.

In calce al breve profilo vengono riprodotti brani di lettere dal fronte inviate dal  giovane ai parenti, agli amici, al Preside del Liceo.

Dagli spezzoni di epistolario risulta che il giovane, pur essendo al fronte dove le condizioni di vita erano sicuramente terribili, minimizza le difficoltà ed ostenta una grande serenità d'animo; forse con l'intento di non allarmare i suoi corrispondenti o forse perché il Super-io della propaganda bellica ormai aveva fatto ampiamente aggio sulla coscienza della propria condizione:« … il cannone tuona e i suoi ritmi si ripercuotono dolci, direi quasi, alle mie orecchie. Sto di buon umore, così allegro …; non so ma  sento in me una tale forza da schiacciare cento austriaci» (p. 58); «Sono in una comodissima baracca; v'è un tavolo, vi sono delle mensole, dei libri, delle bottiglie di cognac, di Bitter Campari, di strega; c'è una stufa che cu fa crepar del caldo» (ibidem).

E, subito dopo: «Se vedessi che bella giornata, che soli e che panorami incantevoli che noi godiamo. Mi pare di essere nel regno delle fate, come si suole raccontare dalle nonne al focolare»(p. 59).

Questo ed altro, direbbe in banditore, troverete nel libro di Umberto di Stilo.