Le ambiguità semantiche dell’aggettivo «amaro» in «Oga Magoga» di Giuseppe Occhiato

Le ambiguità semantiche dell’aggettivo «amaro» in «Oga Magoga» di Giuseppe Occhiato

Seguitiamo a occuparci della lingua di «Oga Magoga» soffermandoci sull’uso che Occhiato fa dell’aggettivo amaro-a che vi ricorre circa 140 volte, un centinaio nella forma maschile.

In una quarantina occorrenze, divise quasi a metà tra i due generi, il significato è quello tradizionale legato al sapore (cioè «contrario al dolce») usato però, nella quasitotalità dei casi in senso figurato; se ne allineano alcuni esempi: partenza amara, 256; afflizione amara, 348; sorte amara, 380; l’ombra amara del destino, 586; amara delusione, 695; penitenza amara, 719; angoscia amara, 1014.

Nei rimanenti casi l’aggettivo assume il significato che in lingua italiana hanno «povero» o «poverino» riferiti, soprattutto, a persone decedute, specialmente familiari: «povero mio padre», «povera mamma mia», «la povera mia sorella».

In molti casi Occhiato usa la parola non tanto e non solo in relazione a persone defunte quanto, soprattutto, a soggetti che, ignari, si trovano in una condizione di debolezza o di imminente pericolo di vita: «amaro Meluzzo», 411; «Amaro Rizieri».

450, 597, 678, 785, 845, 863, 979, 990, 1056, 1122, 1193, 1213,1219; «amaro cristiano» 484, «amaro lui» 490, 1183; «fratello mio amaro» 568; «amara Orì» 1.000; «amara, sconsolata me» 1014, «amara Dianora» 1028; «amara Chicchinella 1143, «Amara Zingarellota» 1209; «Amaro Puricinella» 690.

A volte Occhiato riproduce, «ad abbundantiam», proverbi, massime e modi di dire significativi in cui la parola è desunta da contesti folklorici o etnologici originariamente dialettali e poi vengono tradotti in lingua: «amaru a cu nci ncappa» ‘«amaro chi l’incappa» 578, tre volte, ma anche 1183, due volte; «amaru a cu nasci a stu mundu» ‘«amaro chi nasce a questo mondo», 771; «amaru è lu nudu ma cchiù amaru è lu sulu» ‘«amaro chi è nudo ma più amaro chi è solo» 933.

Nessun repertorio linguistico dell’italiano presenta il significato di «povero» collegato all’aggettivo «amaro» nell’ultima accezione usata da Occhiato; si pone dunque il problema di rintracciarne l’origine e il percorso attraverso il quale è transitata nella prosa dello scrittore.

A prima vista non sembrano esserci dubbi: «amaro» è la traduzione dell’aggettivo dialettale «amaru» «aggettivo di compianto, di commiserazione per chi è sofferente… si usa pure parlando dei morti» (G. A. Martino, Dizionario dei dialetti della Calabria Meridionale, Vibo Valentia 2010, sub voce).

All’ultima limpida e riassuntiva definizione occorre aggiungere che l’area di maggiore diffusione di «amaru» nelle accezioni di cui sopra è il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria mentre nell’ area Jonica si usa, con lo stesso significato, l’aggettivo «maru»; accenniamo ad un piccolo florilegio di proverbi e modi di dire: «Maru è lu nudu ma è cchiù maru lu sulu», «Maru a cu non avi pani a lu so zurgu» (Povero chi non ha pane nella sua dispensa), «Maru a cu non avi e tristu a cu non poti» (Povero chi non ha ma triste chi non può»), «Mara la pecura c’avi a dari la lana» (Povera la pecora che deve dare la lana, ergo ‘Povero chi ha debiti da pagare),

«Maru a cu nasci pe’; sèrviri patruni, / mangia dell’urtimi e mori di li primi» (Povero chi nasce per servire padroni / mangia tra gli ultimi e muore tra i primi!).

Il dualismo amaru/maru è certificato anche dalle raccolte lessicografiche: Giovan Battista Marzano, autore di un Dizionario etimologico del dialetto calabrese la cui prima edizione fu stampata a Laureana di Borrello nel 1928, dedica ad «amaru» mezza colonna a stampa mentre cita appena «maru» seguito da «agg. Lo stesso che amaru: v.q.v.»

Viceversa in un dizionario dialettale maturato in area grecanica (F. Condemi, La lingua della Valle dell’Amendolea, Reggio Calabria 2006) viene dato spazio adeguato a «maro» ma «amaru» non viene neanche citato.

Quanto all’etimologia del termine, Marzano pasticcia un po’; facendo riferimento sia al latino amarus che al greco ἄμοιρος e, addirittura, ad un ἄμουρος non censito dai dizionari di uso corrente.

Dopo aver compulsato diversi lessici ci siamo confermati nella forse semplicistica intuizione che il dualismo amaru-maru in realtà sia solo apparente e che amaru usato nella Calabria tirrenica, e quindi anche in area miletana dove si è formato linguisticamente Occhiato, altro non sia che una variante di maru.

Se non altro perché la a- iniziale del latino a-marus, che fa la differenza tra le due parole, è stata riconosciuta come non tematica da un sapiente poco gradito all’esercito ai glottologi: «La a- protetica deve intendersi come corrispondente ad un antico pron. dimostrativo» (G. Semerano, Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze MMII, sub voce amarus).

E, in ogni caso, si può senz’altro ricostruire il «viaggio» che ha portato «maru» a trasformarsi in «amaru» grazie all’incontro della forma femminile «mara» con l’articolo «a»; donde l’insieme fonetico «a mara» poi trasformatosi in «a-mara» per concrezione dell’articolo nel corpo della nuova formazione.

Quindi, tralasciando etimologie complicate o astratte, si può stabilire una catena coerente di significati per parole che vengono impiegati da tutti i parlanti e che partendo dal gr. μαῦρος arriva all’«amaro» usato da Occhiato:

1. μαῦρος, «bovese màvro, … nero, … misero, màvro-mu, me misero, màvri emì, poveri noi» (G. Rohlfs, Lexicon Graecanicum Italiae Inferioris, Tubingen 1964 ad vocem). Si tenga presente che esiste in Bova e nel reggino, ed anche in Grecia, il cognome «Mauro» veniva declinato foneticamente in «Mavro» (G. Rohlfs, Dizionario dei cognomi e soprannomi di Calabria, Ravenna 1978, ad vocem).

2. «màvro» stà anche per disgraziato, soggetto a disgrazia imminente la più terribile delle quali è senz’altro la morte; e i sopravvissuti hanno l’obbligo di vestire di nero; dunque amaro ‘amaru ‘maru ‘mavro ‘μαῦρος.

3. Due maledizioni: «na fanise mavro s tti zoi-ssu!» (mi pari nigru ndi la to vita! Che tu possa portare il lutto per tutta la tua esistenza!); na fanise mavašš’; emmena! Mi pari nigru di mia! Che tu possa portare il lutto per la mia morte!» (G. Falcone, Il dialetto romaico della Bovesìa, Milano 1973, p. 374); oltre che nel greco di Calabria il significato luttuoso e pernicioso del colore nero si ricava anche dal verbo «nniricari»: «nnriricatu», annerito, può essere una persona particolarmente sfortunata m anche un cucciolo malaticcio o una pianta aggredita dai parassiti.

A proposito del rapporto tra l’«amaro» di Occhiato e «maru», da cui deriva, nonché dell’aggettivo equivalente «niru» o «nniricatu», ecco una osservazione opportuna di G.B. Marzano: «E’ risaputo che nel popolino si usa la voce ‘nigru’ nel significato di infelice e dicesi ‘niggra mia, anniggricata mia’, come ‘amaru mia’ o ‘maru mia’» (G. B. Marzano, cit., sub voce «Amaru»).

In conclusione, attraverso l’analisi dell’aggettivo greco-calabro «amaro», della sua etimologia e delle sue varianti, di significato e geografiche, abbiamo cercato di mettere in evidenza la densità semantica e l’assoluta originalità delle parole usate da Giuseppe Occhiato in «Oga Magoga», nonché l’intreccio fortunato in ciascuna di esse dei due codici linguistici sottostanti.

Quanto sopra è avvenuto non occasionalmente ma per una precisa scelta linguistica dell’autore: «Chi scrive, …, deve costruirsi un suo linguaggio capace di esprimere la nuova realtà che porta dentro di sé, il personale messaggio che può essere comunicato solo con quelle determinate parole e non con altre … in un matrimonio mistilingue in cui italiano e parlata calabrese convivono» e in cui «il dialetto, assumendo dignità di lingua, vivifica e alimenta l’italiano» (G. Occhiato, Genesi del romanzo Oga Magoga, passim).