LA PAROLA e LA STORIA. Crapa, Craparu, Zìmbaru

LA PAROLA e LA STORIA. Crapa, Craparu, Zìmbaru
capre Crapa, dal latino capra, con metatesi della ‘r’ dalla seconda alla prima sillaba anche nei derivati: crapettu, craparu,  craparìziu, riparo per capre, scicrapiari,  togliere dal grano o da altri cereali trebbiati la paglia più grossa (come fanno le capre che scelgono la parte di pascolo più superficiale).

La metatesi manca nelle lingue ispano-romanze ma è presente in quelle sarde: Krabu, Caprone, Kraba, capra, krabile, recinto per le capre, nonché  crabiolu, capretto.

Sembra che l’antenato dei nostri caprini sia una capra selvatica (egagro, capra selvatica) che ancora vive in alcune isole greche; e il greco di Calabria mantiene ega, collegato al greco classico Aiks-aigos , Caprone, femminile aiga.

Le capre, diversamente dalle pecore che brucano l’erba( pecura mussu nterra, crapa mussu all’addhu), si nutrono fondamentalmente di germogli delle piante producendo danni che hanno bisogno di tempo per rimarginarsi: (muzzicata di crapa / velenu pe cchiù di n’annata, morso di capra veleno per più di un’annata).

Crapa dammaggiusa (dal francese dommage, danno, da cui dammaggi-otu-a, persona che fa danni agli alberi, pascolante abusivo e poco attento, voce ibrida con radice francese e desinenza greca) è una definizione proverbiale usata metaforicamente anche per persone, maschi e femmine, potenzialmente pericolose: surici nt’o formaggiu / e crapa nt’o dammaggiu.

Per l’origine della parola latina bisogna accostarsi a Isidoro di Siviglia (I,15) che ne propone diverse: Capros e capras a carpendis virgultis quidam dixerunt. Alii quod captant aspera, Alcuni hanno considerato che il nome dei caproni e delle capre deriva dal fatto di strappare i virgulti; altri perché ricercano i luoghi più alti e impervi (si veda, con lo stesso significato, il calabrese la crapa va sempri sdurrupi sdurrupi e il castigliano la cabra siempre tira al monte) (ma aspera potrebbero essere anche le spine, perché le capre brucano anche quelli con disinvoltura); Nonnulli a crepitu crurum, unde eas crepas vocitatas, parecchi (dicono  ‘capra’) dal rumore delle ‘crura’, e da ciò chiamano quelle ‘zoccoli rumorosi’.

Una malattia ricorrente nei greggi di capre è l’aspa che porta al seccarsi  della mammella e all’interruzione del flusso di latte; si coniuga anche il verbo aspàri: aspàu (le si è seccato il latte), chi mi aspi (che ti si secchi il latte). Rohlfs ipotizza una derivazione da háptō, accendo, da cui infiammazione.

Il maschio della capra si chiama Zìmbaru, con etimo che per Rohlfs rimanda al greco chìmaros, caprone giovane; Semeramo (‘Dizionario della lingua latina, sub Bimus-a-um)  dice che ‘fu intesa a torto  giovane capra  nata alla fine dell’inverno, in origine non ha nulla da vedere  con la base di cheima, cheimon, cheimerios ed è invece un ricalco popolare sulla base semitica di accad. immeru (capra,capro) ugar., ara., ebr. immar”. Si declinano sia le forme alterate che quelle aggettivali ( zimbarùni, zimbarèddu, crapa zimbarigna, cioè dotata di barbetta lunga come il maschio) ed anche il verbo zimbariari.

Zìmbaru è anche un soprannome maschile ( Natu u Zìmbaru, Micu u Zìmbaru etc. etc.) affibbiato a chi, particolarmente versato nello zimbariari, ha capelli neri e crespi e magari fa poche abluzioni perché, come si dice a Roma, l’omu pe esse omu ha da puzzà.

Gli ovo-caprini (nimali minuti) hanno un destino segnato dalle feste comandate: crapettu natalinu e gneddhu pascalinu (il capretto si mangia a Natale e l’agnello a Pasqua) mentre il mese più pericoloso per le capre è agosto, quando nei paesi dell’Aspromonte vengono macellate a migliaia per via della carne non grassa e adatta al sugo dei maccheroni.

Con la pelle di capretto si fanno i tambureddhi, cioè i cembali che fanno da basso continuo all’organetto, alla chitarra e alla zampogna; con la pelle di capra si facevano l’utri (gli otri, con cui si usava  trasportare, sin dall’antichità, i liquidi: olio, vino, miele) nonché le ciarameddhe, le zampogne della tradizione musicale di buona parte dell’Appennino (A. Ricci e Roberta Tucci, La capra che suona, Roma 2001).

L’epicedio più famoso per gli scannamenti agostani lo ha scritto Otello Profazio: la capra uccisa ad agosto ‘… era sazia di vita / era sazia d’amuri / … si la mangiaru ‘nt’a lu pagghiaru /tutti l’amici d’u pecuraru …. / cci mangiaru puru li ricchi / cci mangiaru puru l’occhi …. / la vecchia crapa non vidi cchiù nenti / la vecchia crapa non vidi e non senti …. / Ma quando veni agustu a menzanotti / …./ la vecchia crapa, la crapa scannata, / Si senti gridari, si senti bramari / perchì vulissi ancora tornari / a stari, a campari / e a fari l’amuri …;  (a viva voce, Roma 2007, pp. 211-212).

Meravigliosa metafora, la capra d’agustu, delle centinaia di fantasmi umani che in terra bruzia dovrebbero tornare, e forse sono tornati e tornano ancora, ad inquietare le notti insonni dei loro assassini.

E forse eco lontana (inconscia?) del primo Saba:

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
Dalla pioggia,belava.

Quell’uguale belato era fraterno
Al mio dolore. Ed io risposi, prima
Per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva
Genere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
Sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.