Mi chiamo Tiziana ed ho 31 anni. Non sono molto diversa dalle ragazze della mia età, ho gli stessi sogni e gli stessi desideri di tutti. Ma non sono come tutti. Due giorni fa mi sono legata un foulard al collo. Non ce la facevo più. Da un anno, gente di cui non conosco il nome e il volto, gente che in compenso conosce il mio, ha iniziato a darmi la caccia. Ad insultarmi, ad umiliarmi, solo perché ho fatto sesso. Come tante ragazze della mia età fanno. Mi dicono che “me la sono cercata”, adesso. Sono felici per la scelta estrema che ho fatto, l’unica tra le scelte possibili per mettere fine all’incubo subito. Perché quell’uomo che avevo scelto per far ingelosire il mio fidanzato ha girato un video ed io gli ho detto anche “bravo”. Perché quel video, che doveva rimanere in mano soltanto a chi decidevo io, è diventato un virus. Lo hanno visto tutti. Tutti lo hanno commentato. E il mio nome e il mio volto sono diventati un oggetto da manipolare e rivendere come gadget. Qualcosa che serviva a far vergognare le donne come me: se fate sesso siete dannate, delle poco di buono, delle streghe. Da bruciare vive.
Nessuno accetta o tollera che il corpo delle donne sia delle donne. Noi donne abbiamo un corpo che non è nostro. Quindi, non lo possiamo usare come decidiamo. Il corpo di noi donne è lo strumento per garantire la continuazione della specie umana. Serve ai maschi per assicurarsi il futuro. Per questo è avvolto da una sacralità che impedisce alle donne di usarlo allo stesso modo in cui lo usano gli uomini. Le nostre mamme e nonne, prese per pazze, urlavano per le strade “Il corpo è mio e lo gestisco io”, oppure “Io sono mia”. Avevano ragione. Avevano intuito il punto. Volevano che il loro corpo non fosse più proprietà pubblica o comunque degli altri ma una realtà privata come quello dei maschi. Nessuno le ha prese in considerazione, le loro lotte sono state un fallimento, fiato inutile.
Mi sono dovuta uccidere perché il mio corpo, “usato come dico io” è diventato pietra dello scandalo e, soprattutto, della vergogna. Fosse stato un mio coetaneo maschio a finire sul web mentre si liberava nell’orgasmo sarebbe diventato un eroe: video e foto se le sarebbe appese al collo per esibirle. Lui è suo. Io non ero mia e me lo hanno fatto pesare fino a stringermi il foulard al collo.
Festeggiano la mia morte, adesso. Su quel web che mi ha stuprata. Hanno approfittato del mio corpo in una piazza virtuale che consente a tutti di indossare una maschera per vomitare tutto lo schifo nascosto di chi è debole e fragile. Sfogano sulla tastiera l’ipocrisia di un tempo che non riconosce diritti a noi donne. Meglio: ne ha paura. Possiamo votare e candidarci, fare figli, lavorare, fare sesso come chiunque altro. Ma sotto sotto non lo tollerano. Dovremmo ancora stare a casa a cucinare, nascoste dalla facciata di una finta emancipazione che ci viene soltanto data in prestito.
Ho fatto sesso perché lo volevo. E anche il video volevo fare. E non ci trovo davvero nulla di male, a parte l’idiozia di chi mi ha giudicata. Perché io conosco la differenza tra intimità e pubblicità, tra un gioco innocente e uno stupro collettivo. Ma solo adesso che sono morta ho visto gente indignarsi. Perché è sempre la rete che decide qual è il comportamento giusto da assumere, qual è la facciata. Dicono che «la colpa è della rete», come se dietro quegli schermi non ci fossero persone reali che hanno scelto cosa fare.
Ho capito anche che siamo un gruppo di persone sole. Persone che hanno bisogno di un nemico comune contro cui scagliarsi per sentirsi “amici”, per sentirsi simili. Persone che creano sistematicamente capri espiatori, per controllare ciò che non capiscono, ciò di cui hanno paura, urlando da un pulpito che è virtuale solo per chi sputa odio. Per le persone come me, invece, è tutto reale. Tutto tremendamente reale. Lo fanno sfruttando un mondo così liquido, come il web, che consente di nascondersi sotto una superficie fluida che ci rende tutti uguali.
Ma non lo siamo, tutti uguali.
Voi direte che dietro quello che mi è successo ci sia stata ignoranza, mancanza di responsabilità, poca consapevolezza delle potenzialità della rete. Ma forse dimenticate che anche i cosiddetti “vip”, che dell’immagine pubblica hanno fatto una religione e sanno bene cosa comporti “un passo falso”, hanno scherzato sul mio nome. Dimenticate quelle magliette che portavano la mia frase, come simbolo commercializzato, e dunque da tutti accettato, della gogna che “mi sono meritata”.
Ora vi indignate, anche se non tutti. C’è ancora chi è felice per quello che mi è successo e che definisce la mia scelta il giusto epilogo di una porcata. Una porcata che non è diversa da quella capitata a quella 17enne di Rimini, violentata nel bagno di una discoteca e ripresa dalle “amiche”. Ridacchiavano, loro, mentre quella ragazzina priva di sensi veniva stuprata. Sono donne anche loro, che si sono trasformate nelle prime aguzzine di una giovane che era sotto ogni punto di vista vittima. Sono donne anche quelle che, a Melito, hanno deciso che una ragazzina di 13 anni meritasse di essere violentata dal branco perché «movimentata». Donne che assieme a uomini hanno formato una comunità cementata dall’odio. Non è perché vedono il sesso come un gioco, come ha detto l’arcivescovo di Reggio. Lo vedono come una punizione, un’onta. Perché non lo capiscono, perché sono maleducati. Io sono la ragazzina di Rimini, sono la ragazzina di Melito.
Ma mi chiamo Tiziana ed ho 31 anni. E grazie a voi, li avrò per sempre.