LA PAROLA e LA STORIA. Crapa/3 (Con una poesia di G. Criaco)

LA PAROLA e LA STORIA. Crapa/3 (Con una poesia di G. Criaco)
capra   Lo sterco di capra, caddhòzzulu, entra anche nel linguaggio ndranghetistico e parandranghetistico sia nel contesto ‘informativo’ (Cui? Chiddhu? Ma chiddhu non è né lupu, ne lapa e ne caddhòzzulu di crapa!  Il contenuto fa riferimento al lupo che ti può sbranare, all’ape che ti può pungere e allo sterco caprino che, diversamente dal de cuius che è un buono a nulla, almeno è adatto a concimare la terra) che in quello dialogico: Oh,  ma tu chi sì, lupu, lapa o caddhòzzulu di crappa?, Non sì né lupu … etc,etc.

Ma si dice anche: si mbriacàu di caddhozzuli di crapa, si è ubriacato di sterco caprino, spregiativo per un neofita dell’organizzazione che si è montato la testa senza averne la stoffa o i titoli. 

Le assonanze e i richiami tra capra e mondo umano non eliminano però l’antica e consolidata alterità; infatti la Chimera  (mostro tricipite a forma di leone, capra e serpente) deriva il nome proprio da Chìmaira, capra, il cui maschile, Chimaros, abbiamo visto essere l’archetipo del calabrese Zìmbaro.  

E come dimenticare poi che il diavolo, nella multisecolare cultura popolare e religiosa dell’Occidente, assume quasi sempre le forme caprine?

E l’associazione capra-danno non evoca forse l’altra, donna-danno, diffusa sotto ogni cielo?

E Il proverbio la crapa s’avissi virgogna non jva girandu c’a cuda all’addhu, la capra se avesse vergogna non andrebbe girando con la coda in su, diffuso in tutta la Calabria dal Pollino all’Aspromonte, sarebbe ancora vivo se non avesse contenuto l’allusione proprio alle eredi di Santa Eva, così propense alla leggerezza e, perché no, alla civetteria che tanta noia dà ai bacchettoni di tutte le risme.

Ed anche il vago richiamo alla capricciosità umana dell’adagio erasmiano sulla capra siriana, ( …mulctrum, quod lacte impleverat, ipsa rursus evertit atque hoc modum beneficium , quod dederat, eadem perdidit …, Erasmo da Rotterdam,  Adagiorum collectanea,Torino 2013, 302)  che aveva rovesciato la ‘chisca’ riempita dal proprio latte, non evoca forse l’insofferenza  periodica, spesso giustificata, di tante nostre compagne di viaggio?

Il dialetto calabrese è molto puntuale nello specificare il generico ‘capra’: a) ciaureddhu, franc. chevreau, capretto, ciaureddha, dal franc. chevrette, capretta, declinati anche nell’accrescitivo, ciaureddhazzu-a, capretto di un anno di età; ci sono anche i cognomi Ciaurro o Ciavarella; 2) lastra, capra giovane (da un anno a due) dal latino haeda, capretta, tramite il peggiorativo poco canonico haedastra (Rohlfs); per le più piccole si usa anche il diminutivo lastricciola.

Interessante ciaurrina o ciavurrina che Rohlfs liquida con ‘liquirizia’ o anche con ‘baldoria’ senza collegare minimamente alla radice che, evidentemente, è la stessa di ciaureddha.

Se un bambino piangeva a lungo, belando quasi come un capretto, i grandi lo zittivano con un perentorio: ’Ora basta, nc’a facisti a ciaurrina!’   

E così quando uno parlava assai!

Quindi il belato prolungato di capretto fu assimilato all’analogo pianto insistito del bimbo, a ciaurrina appunto, e anche ai vaniloqui che si prolungavano con fastidio degli ascoltatori.

I prodotti alla liquirizia che circolavano nelle nostre fiere erano di forma sottile e allungata; i bambini poi ne prendevano un capo in bocca e li stiravano ulteriormente prima di masticarli.

Fu dunque così che il significato di ‘lunghezza’, associato prima al belato del ‘ciaureddhu’ e poi esteso per traslato al pianto del bimbo e agli sproloqui, finì per applicarsi anche a quel dolce stravagante ed esotico che aveva la forma allungata e che poteva, come le altre cose denotate, essere aumentato a volontà.

Chiudiamo la carrellata con l’onomastica caprina.

A differenza delle pecore, che oltre ad essere disciplinate hanno anche manto uniforme e poco vivace, le capre spiccano per comportamenti ‘eversivi e individualistici’ e quelle aspromontane ancor di più per il manto variato in forme  quasi infinite.

Era dunque naturale che i pastori, che dovevano richiamare e correggere in continuazione  quelle ‘scrapestrate’, tentassero di affibbiar loro un nome individuale che, ripetuto ed associato a qualche botta di ‘capinta’, penetrasse nel cervello di quelle incorreggibili compagne di viaggio; ed era altrettanto naturale che quel nome fosse ricavato dal colore del manto che era l’unica cosa a cui poteva essere associato.

Ecco spiegata l’onomastica caprina calabrese spiegata nel dettaglio da Francesco Tassone (Una capra a spasso per la Calabria, ‘In Aspromonte”, 11 settembre 2014) cui si rimanda per gli approfondimenti.

Qui si riassume la tecnica onomastica. Si parte da alcuni colori fondamentali come il rosso (in grecanico ròdino quando è prevalente o ruso  quando è mescolato) o  bianco-grigio ( il colore della vecchiaia, dal greco geràsco-invecchio, gèras- vecchiaia, geraiòs-e-on – senile, grecanico jèrina o ièrana) e si passa a colori pezzati (petrola, dal greco volgare petrotò, Rohlfs, animale di manto pezzato) o macchiati (fàvaro,   dal greco fabaros-e-on, colore delle favi, grigio. Rohlfs, o con macchie piccole come le favi, si coniuga il verbo favariari, cucinare a metà, a pois diremmo, ma anche fare qualcosa in modo molto superficiale, lu misi mi ntònaca ma non rinesciu mancu mi la favaria, l’ho messo ad intonacare ma ha fatto una porcheria) e poi li si mischia a piacimento a seconda della bestia che bisogna nominare.

La capra aspromontana ritenuta tra le migliori è quella detta ‘Cinta’ perché, come i maialini allevati a Siena  dal medioevo in poi e resi famosi dall’affresco del Lorenzetti nel Palazzo di Città, ha una larga striscia bianca che le copre la parte centrale del corpo.

Noi, in attesa di un Lorenzetti che tramandi l’immagine della ‘Cinta’ caprina, ci affidiamo per la chiusa ai versi di una canzone, una vera e propria ode  in stile nerudiano e in  dialetto bassojonico, scritta da Gioacchino Criaco:

‘Cinta’   

Supra sti rocchi regna na suvrana

Vesti la carni sua, la vesti bona

 …. Porta nu mantu di lucida lana

Ntesta s’adurma cu la so curuna

Nta li muntagni grida la so brama

….trema lu cori di cu s’avvicina

Nta li cuntrati faci la regina

Di li so figghi sta natura è china.

Di mascuuli ndi teni na decina

 Ma di li grazi soi esti patruna

Cu voli lu so cori voli dannu

Poviri amanti soi perduti sunnu

Prometti amuri ma dassa l’ingannu

Nta la so bucca teni sulu chiuri

… e nti li carni soi milli sapuri

Pochi lu sannu di la to bellizza /

chi veder non ti ponnu nta na chiazza.

Cunvinti sunnu ca si malarazza,

sicuri ca la tua non è ricchizza,

si perdinu di tia ogni carizza.

P’amari a ttia è troppu lu penari

mègghiu l’amuri mbrazzu a li cotrari

Megghiu mbrazzati nfaccia di lu mari

Luntani di li munti e d’i chiumari.

Cu curri arretu a ttia è senza spiranza

Tu mmustri di luntanu la to danza

Lluntani di lu sennu la cuscienza.

Balli la tarantella a quattru pedi /

E di li servi toi zumpandu ridi.

Cianginu arretu a ttia na vita tinta /

li dassi disperati, li dassi disperati

li nnamurati toi suvrana cinta.