
D. Il tuo primo romanzo s’intitola “Politeama”. Ma ti riferisci a quale Politeama? E’ un luogo vero o inventato? Quanto c’è di te in Luigino?
R. Se non fosse esistito nella mia città un Politeama, forse il titolo del romanzo sarebbe stato un altro, chi lo sa…. Sono legato al nostro antico Teatro Italia da un cordone ombelicale che non è mai stato reciso. E’ là che ho visto il primo film della mia vita (il mitico “Gilda”, con Rita Hayworth), è là che ho assistito per la prima volta a una recita teatrale. Avevo dodici anni e un amico più grande, Cicciuzzo Mannarino, mi portò a vedere “Il diario di Anna Frank” messo in scena dalla Compagnia dei Giovani. Quante volte, negli anni, ne ho parlato con Romolo Valli, con la Guarnieri, con Umberto Orsini che debuttava… Per me il Politeama era un luogo mitico quand’ero ragazzo, e nel romanzo è diventato un simbolo, mi sono rifatto all’etimologia greca, il luogo della città dove avviene lo spettacolo… Persino il circo dove il protagonista si esibisce per la prima volta potrebbe chiamarsi Politeama. Allora ogni città aveva il suo Politeama, nel romanzo lo troviamo a Catania e anche a Roma. E questo è un puro gioco di fantasia, perché a Roma stranamente non esisteva…
Quanto di me c’è in Luigino? Tutto e niente. All’inizio del romanzo ho messo un esergo tratto da Mark Twain che, nel suo mistero, spiega molte cose: “ Eravamo gemelli. Da piccoli, uno dei due è annegato. Ma non ho mai saputo se era lui o se ero io.” Considero Luigino una specie di alter ego al quale accadono cose che per mia fortuna io ho solo sfiorato. Ci accomunano i sentimenti ma non le vicende. Le “avventure” tristi o felici che lui vive non mi appartengono, ma le conosco bene. C’è nel romanzo una vena dickensiana in tutto e per tutto letteraria (anche nello stile, se vogliamo) che ha poco a che fare con la “vita vissuta”. Ma ne conserva il sapore. Diciamo che la mia crescita è stata più serena della sua, anche se è toccato spesso a entrambi di scalare le stesse montagne.
Catanzaro - dove torni rarissimamente - é per te un luogo di cosa? Di ricordi? Di passioni? Di crescita? Di dolore? Di abbandono? O di cos'altro?
Di tutto ciò che hai detto, non potevi trovare parole più appropriate. Vorrei metterne altre, ma sarebbe un elenco sterminato. Considera che a Catanzaro ho vissuto dai dodici ai vent’anni, il periodo cruciale per la crescita di chiunque. Vorrei però aggiungere almeno una cosa: Catanzaro era per me anche un luogo di felicità. Forse per questo ci torno poco, perché quello stato di grazia non lo ritrovo più, adesso che sono passati gli anni e tante figure sono scomparse, amici ma soprattutto familiari. L’ultima volta sono tornato per seppellire mia nonna, forse la persona più importante della mia vita, alla quale devo gran parte di quello che sono riuscito a fare da grande. Ogni tanto percorro mentalmente la strada che dalle case dove abitavamo (scesa Case Arse, Vico 2° Raffaelli, via Case Arse…) mi portava a scuola. Ma soprattutto la memoria corre al perimetro che disegnava le sale cinematografiche, dall’Odeon di San Leonardo fino al Kursaal del quartiere Santa Maria, con quello scalone facile da scendere, ma che al ritorno ti faceva venire il fiatone…
E la Calabria tutta - penso a “Il ladro dei bambini” - nella tua azione culturale cosa rappresenta e cosa potrebbe rappresentare?
Penso di aver ritrovato la Calabria in giro per il mondo, dall’Albania alla Cina all’Algeria. C’è ad esempio in molti miei film l’impronta del paese in cui sono nato, San Pietro Magisano, dove ho vissuto fino ai dodici anni, ed è un sentimento forte che va molto al di là della geografia. Non si tratta di luoghi ma di radici, che non potrei spezzare mai, anche volessi. Un mio prossimo romanzo sarà tutto ambientato in Calabria e sono sicuro che riscoprirò ancora molte cose. Poi credo – ma questo non vuole somigliare a un vanto – di essere finora l’unico regista che abbia girato un film (un telefilm, per l’esattezza) dentro Catanzaro, dallo stadio a piazza Matteotti, dall’Istituto Agrario al Provveditorato. Si chiama “La fine del gioco” e, se non ce l’hanno già, darei volentieri la mia copia alla Cineteca di Catanzaro.
Cinema e letteratura: dove cade il tuo tasto preferito?
Lavoro su tutte e due i fronti. A marzo esce il film che ho appena finito di girare a Napoli. Si intitola “La tenerezza”, con Elio Germano, Michela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno, Greta Scacchi e Renato Carpentieri, che in “Porte aperte” fece il suo debutto accanto a Gian Maria Volonté. Confesso però che questa prima esperienza – “Politeama” è un romanzo crudo e soave che non mi è costato nessuna fatica – oggi fa pendere il piatto della bilancia più sulla letteratura che sul cinema. Forse cambierò idea, ma inventare storie per la pagina invece che per lo schermo, in questo momento mi dà più soddisfazione.
Pensi di lavorare nel futuro per dare un'idea diversa, fuori dai luoghi comuni e degli stereotipi del Sud? O hai altri temi e progetti?
Progetti ne ho tanti, anche se il momento che attraversa il cinema è molto delicato, per non dire preoccupante. Ma io ho sempre seguito con tigna le mie idee anche nei momenti di crisi. Il margine di libertà, certo, si restringe sempre di più per chi non vuole omologarsi. Ma abbiamo superato fasi anche peggiori. Catanzaro poi, ce l’ho nel cuore anche come possibile set cinematografico. Da anni chiedo di poter fare un documentario sulla storia della nostra città. Ma non si è fatto vivo nessuno. Io continuo a sperarci.