L’INTERVENTO. Giovanni Lamanna a10 anni dalla scomparsa

L’INTERVENTO. Giovanni Lamanna a10 anni dalla scomparsa
giolam   (rep) A dieci anni dalla scomparsa dell’onorevole Giovanni Lamanna, sento il dovere morale, oltre che civile, di scrivere alcune riflessioni in ricordo dei momenti trascorsi con lui nell’ultimo periodo di vita, che hanno rappresentato per me un momento importante negli anni di sindacatura a Melissa e del mio impegno politico, prima nei DS poi nel PD, svolto dal 1999 al 2009.

Nella riflessione, non posso esimermi dall’evidenziare la statura politica e ideale di Giovanni, la forte coerenza tra ideale, stile di vita e azione politica. Figlio di borghese, nel dopoguerra, viste le drammatiche condizioni di vita in cui versava la popolazione calabrese, sceglie di lottare per e con gli ultimi, e diventa “rivoluzionario di professione”, rinunciando alla sicura agiatezza che gli avrebbe garantito il proprio status sociale, in un tempo in cui non esistevano i lucrosi e sostanziosi finanziamenti pubblici ai partiti, né vi era la finanza o la grande impresa che foraggiava e sponsorizzava partiti e gruppi politici. Scelse di stare accanto ai contadini poveri, a fianco ai braccianti e agli operai che, grazie all’azione dei giovani dirigenti del PCI, divennero protagonisti di una lunga stagione di lotta che produsse cambiamenti profondi nel Mezzogiorno e nell’intero Paese.

Sono, tuttavia, consapevole che, con questi argomenti, si rischia di cadere nella retorica. Oggi, parlare dell’impegno politico e ideale a favore degli ultimi rischia di essere demodé. Tutto è veloce, bisogna essere attenti ai capricci della finanza e seguire l’andamento delle borse. Non c’è tempo di soffermarsi sui bisogni dei ceti deboli: non sono questi temi che determinano il consenso.

Eppure si può affermare come alla base del nostro decadimento economico e sociale, ci sia anche il venir meno della carica ideale che favoriva una visione del mondo progressista e di sinistra. e che poneva al centro nodi come la questione meridionale e problemi strutturali come quello di garantire un futuro di lavoro produttivo alle nuove generazioni. Lamanna era convinto che lo sviluppo economico non poteva prescindere “dal territorio, dalle risorse materiali e umane”, come scrive Piero Bevilacqua nella prefazione al libro di raccolta dei suoi scritti (“Pagine di lotta meridionalista”). Nel libro appare plastica l’attualità della sua visione di sviluppo territorio: il rapporto tra collina, montagna e pianura; la salvaguardia ambientale ed idrogeologica; il risanamento delle aree urbane e rurali; la valorizzazione della vocazione agricola e turistica della regione. Argomenti che, alla luce della crisi perdurante e dei tristi e drammatici eventi catastrofici degli ultimi tempi, risultano purtroppo attualissimi.

Oggi si governa con una visione di brevissimo respiro, senza mettere mano ai problemi endemici e strutturali. La responsabilità non è solo dell’attuale gruppo dirigente regionale, ma di un indirizzo politico nazionale ed europeo che da oltre venti anni porta avanti un attacco senza precedenti ai diritti e al ruolo dei lavoratori. La politica dei bonus (regalie elettorali), la riforma del lavoro, quella delle pensioni sono solo l’altra faccia della medaglia. Accentuano il vuoto di prospettive, il buio nel proprio futuro delle nuove generazioni, oltre che frustrazioni, rabbia e paura in chi si sente più fragile e colpito da una crisi senza fine. Il processo di costruzione dell’’Europa che avrebbe dovuto favorire la crescita degli standard migliori presenti nei paesi più avanzati e favorire la ricerca e le innovazioni tecnologiche per poter meglio rispondere al mercato globale, ci lascia invece una competizione al ribasso come dimostrano la riduzione dei salari e dei diritti sociali.

E’ mancata una proposta di politica europea alternativa a quanto sopra detto, e lo sforzo massimo si è concentrato nell’elemosinare deroghe allo sforamento del rapporto debito-Pil come se l’unico obiettivo fosse quello di aumentare il debito, che invece rimane il vero grande problema del Paese. Richieste di deroghe che sono state barattate con leggi scellerate come quella sulle pensioni, sulle banche, sul pareggio di bilancio e sulle politiche agricole che danneggiano i nostri prodotti e produttori. Nulla viene fatto, in concreto, per ridurre sprechi e privilegi che oggi rappresentano la vera stortura e che in Italia stanno creando  una vera e propria questione democratica, per il forte peso che hanno sui conti pubblici, e soprattutto per la galoppante insofferenza della gente.

Di fronte alla vastità e gravità dei problemi in cui versa il Paese osserviamo un PD, su cui era stata affidata grande speranza, che è impegnato da anni in lotte interne, tese principalmente ad assicurarsi il controllo del partito. Dopo dieci anni di vita del PD mi sento di dover dare ragione a Giovanni, che non aveva visto positivamente la nascita di questo nuovo partito. Ed ogni volta che ne parlavamo era visibile il suo disappunto e la sua contrarietà. La considerava una fusione fredda, tra partiti con storie completamente diverse. Vedeva soprattutto il rischio che la fine di un grande partito di sinistra ci lasciasse disarmati nella lotta per contrastare il liberismo imperante e le storture indotte dalla globalizzazione.

Ricordo la sofferenza impressa sul suo volto quando io, appassionato come sempre, sostenevo la validità della scelta. Ritenevo infatti un’opportunità la costruzione di un grande partito, interclassista e interculturale, in grado di fermare il berlusconismo imperante. Per Giovanni, al contrario, non potevamo costituire un nuovo partito solo per fermare Berlusconi. “Servono – diceva - idee, visioni e ideali comuni”, cose che non possono essere costruite a tavolino dai dirigenti centrali senza prima costruire un percorso dal basso, coinvolgendo militanti e la classe dirigente locale. Serviva un avvicinamento reale e non artificiale o virtuale tra “popoli” che per un lungo periodo erano stati si fronti contrapposti soprattutto a livello locale.

Argomenti e preoccupazione confermati, anche, dall’avvento del porcellum che ha di fatto svuotato ogni funzione del territorio, fatto di centinaia di migliaia di militanti  e dirigenti locali, ed ha accentrato nelle mani dei dirigenti nazionali la scelta dei candidati per la Camera e  Senato. Benchè non votato, il porcellum  è stato utilizzato nel modo peggiore in casa DS e poi PD. L’inizio del declino del PD, va datato anche in una nuova concezione della democrazia nata anche grazie al porcellum. Da quel momento inizia un percorso che allontana sempre di più la gente dalla militanza e dalla politica. Parte la corsa di fidelizzazione al capo che decide tutto. Non serve essere presente nel territorio, non serve essere espressione del territorio, non serve battersi per il territorio: è sufficiente entrare nelle grazie del capo, a tutti i livelli: locale, provinciale, regionale e nazionale. Una scala di autorefenzialità e protezione a cascata. Il processo di costruzione e selezione dal basso, nella vita delle sezioni, della classe dirigente del PD è stata vanificata e, di conseguenza, anche il processo di contaminazione culturale e politico tra i militanti è fallito.

Il voto del 4 dicembre racchiude tutti questi fallimenti e la moltitudine di persone che ormai da anni non votavano hanno deciso di tornare a votare per dire basta!! Basta ai tradimenti ed alle menzogne, basta ad una classe dirigente che ha perso la propria bussola, una classe dirigente rinchiusa nella propria corte. Lontana dai problemi veri del paese, che vive in un mondo virtuale fatto di privilegi e comodità, lontana anni luce dai bisogni della gente comune. Ancora oggi, anziché aprire una discussione vera sulle ragioni del voto e, quindi, rispondere alle domande che stanno in quel NO, ripartendo dalle ragioni che erano alla base della nascita del PD, si continua nell’atteggiamento beffardo e sprezzante, incurante di quanto sta avvenendo intorno a noi e nel mondo. La domanda di sicurezza che rimbomba nell’avanzamento della destra in Europa, e nel mondo, l’insofferenza verso gli altri che si diffonde sempre più sono il riflesso di uno stato di malessere e di paura indotto da una globalizzazione incontrollata e senza regole.

Mi auguro che si faccia presto il congresso del PD e che questo diventi un’occasione di discussione vera di quale futuro vogliamo costruire e non un’occasione di continuare o rafforzare una lotta tra bande per il controllo del partito. Di queste occasioni ne abbiamo perse troppe, anche ai tempi del PCI, quando, all’insegna del giovanilismo, si sono persi per strada uomini capaci e risorse umane importanti. Occorre ripartire meglio, con una nuova legge elettorale che metta al centro l’elettore ed il territorio. Ciò potrebbe rappresentare una ulteriore opportunità per vedere attuato il progetto di costruzione del PD dal basso e riaprire le porte ai tanti militanti che vogliono contare, parlare ed oggi non sanno dove e con chi.

Per concludere cerco di immaginare per un momento l’approccio di Giovanni a questo nuovo e per certi versi inedito avvento del Movimento 5 stelle. Non penso avrebbe assunto atteggiamenti di snobismo, di sufficienza o di disprezzo, con i quali è stato visto dai dirigenti del PD e dalla stampa. Giovanni avrebbe saputo cogliere l’elemento di novità nell’impegno dei tanti giovani, sui quali riponeva molta fiducia.  Lui che aveva la vista lunga, avrebbe colto tutte le novità e si sarebbe confrontato volentieri con la nuova realtà politica. Giovanni si nutriva di passione e si rinvigoriva con lunghe discussioni politiche durante le serate trascorse a Vallecanne, intorno al caminetto, insieme a Gino Murgi e Raffaele Falbo, che mi accompagnavano ammirati dalla vivacità e lucidità politica del vecchio maestro. Con la sua scomparsa abbiamo perso un punto di riferimento, un faro, e credo che, se lui fosse stato presente, molti di noi avrebbero fatto scelte diverse e forse anche nel Crotonese le cose sarebbero andate diversamente. Pura illusione? Sarà, ma lasciatemela.

*gia sindaco di Melissa