LA CALABRIA e i PROVERBI. Piangere, ridere e morire

LA CALABRIA e i PROVERBI. Piangere, ridere e morire
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    La gatta di san Basilj / nu pocu ciangi e nu pocu ridi

La tradizione è ricca di intrecci tra riso e situazioni contrarie come la morte (Risu emoriri, Terenzio, ma anche l’italiano ‘morire dal ridere’o il tedesco Sich zu Tode lachen, ridere fino a morirne) o il pianto come ci ricordano Salomone (Extrema gaudia luctus occupat, Bibbia, Proverbi) e Goethe: Ridere e piangere, piacere e dolore sono gemelli (Lachen, Weinen, Lust und Schmerz sind Geshwisterkinder).

Proprio per questo la cultura popolare sottolineava anche l’esigenza di non confondere le due cose e, anzi, considerava disdicevole e fonte di disgrazia il farlo: focu meu, ridìa ch’i lacrimi (Che disastro, ho riso fino alle lacrime) era l’esclamazione di chi si accorgeva di aver riso troppo.

In italiano il detto Chi ride di venerdì, piange per tre dì sanzionava il riso nel giorno della passione e della morte di Cristo e lo collegava a disgrazia sicura, anzi alla morte, dato che tre dì era il tempo del lutto post-mortem.

Facevano eccezione i bambini che, beati loro, passavano dal riso al pianto con facilità. Il proverbio relativo è la gatta di San Basili / nu pocu ciangi e nu pocu ridi!  si recitava quando un bimbo, per qualche contrarietà da nulla, smetteva di ridere e diventava piagnucoloso (ciangiulinu) nel mezzo di un divertimento o, per un gesto di affetto dei grandi, smetteva di piangere e scoppiava a ridere.

Analogo il proverbio pugliese La jatt’ d’ sab Basilj n’oggn Kiang e nnoggn rid’. Il tropo deve essere legato alla compassione di San Basilio Magno per gli animali (Signore, accresci in noi la fratellanza con i nostri piccoli fratelli … facci capire che essi amano, come noi, la dolcezza della vita, … Preghiera per gli animali) e all’analogia tra il gatto e il bambino.

Naturalmente il bambino che aveva iniziato a piangere per un contrasto coi grandi, una volta superata la fase delle lacrime voleva la rivincita. Un altro proverbio inibiva dal continuare: quando u pìcciulu voli ciangiri / cu u grandi s’avi a mentiri.

                                                                                                             Ddhatta e ciangi

Il bambino affamato continua a singhiozzare nonostante sia impoppato e succhi il liquido vitale. La metafora riguarda tutti coloro che, insaziabili e famelici di ogni cosa,  lamentano l’esclusione da un bene proprio mentre lo stanno arraffando a man bassa. 

C’è poi chi piange nelle difficoltà e non esterna gioia alcuna quando le cose gli vanno bene: u pecuraru chianci quannu jela  / ‘un chianci quannu affunna la cucchiara, il pecoraio piange quando ci sono le gelate ma non piange quando fa il formaggio (Spezzano, 1245).

                                                                                                   Ognunu ciangi ch’i so occhi

si usava di rimando quando qualcuno, in presenza di una disgrazia o di una difficoltà, si sente raccontare qualcosa di simile accaduto ad altri. Si intende così che il dolore profondo, nonostante pareri contrari (aver compagno al duol scema la pena) non riceve sollievo dalla comparazione con le disgrazie altrui.

D’altra parte sarebbe da scemi ridere di fronte alla perdita di qualcosa di caro: cu perdi e ridi è pacciu!

I debiti si paganu e i piccati si cianginu,

In questo proverbio ciangiri è verbo metonimico per scontare; pertanto chi fa debiti sappia che li dovrà pagare (mara la pecura c’avi a dari la lana) e chi pecca deve sapere che ne dovrà rispondere.

In tutto o in parte, naturalmente: la mugghieri di lu latru no ridi sempri, analogo al sardo Chie tantu nde faghet / una nd’at a pianghere Chi fa tante mascalzonate almeno per una piangerà.

Anche se, e restiamo in Sardegna, Neche o non neche / Pianghet berveche

Colpevoli o innocenti / sempre le pecore piangono.