
La notizia del baciamano è stata accompagnata dall’inevitabile profluvio di dichiarazioni, di discettazioni su codici e riti, sull’omertà diffusa e sull’ampio consenso sociale che circonderebbe i mafiosi. Dichiarazioni di politici in carica e di politici a riposo, insieme con analisi di commentatori vari e note di rappresentanti di diverse istituzioni. C’è chi si addentra in spiegazioni sociologiche, chi si chiede dove siano gli intellettuali, chi invoca una reazione (quale non è dato saperlo) della cosiddetta “società civile”. Nel clamore mediatico, sono in pochi a ricordare che San Luca e la Calabria non sono quelle mostrate in televisione; che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Ma anche in questa vicenda, come in innumerevoli altre da decenni ormai, a prevalere è la solita narrazione stereotipata e a tratti immaginifica della Calabria.
Certo, il problema criminale esiste. Sarebbe folle non riconoscerlo. Ma davvero la realtà corrisponde alla narrazione, alla rappresentazione che ne viene offerta? E quale sarebbe, poi, la colpa dei calabresi onesti, cioè della stragrande maggioranza della popolazione, se un criminale o un mentecatto compie qualche gesto esecrabile? Cosa dovrebbero affermare i calabresi perbene? Forse la più ovvia delle ovvietà, e cioè che, essendo persone perbene, stanno con lo Stato e non con la mafia? Cosa si pretende dai padri di famiglia, dalle lavoratrici, dalle casalinghe, dagli anziani, da noi e dai nostri figli? Che si faccia atto di pubblica contrizione per l’incolpevole fatto di essere nati in Calabria?
Cronache immaginarie, notizie artatamente amplificate (non importa quanto vere, non importa se smentite successivamente dai fatti) e sociologismi d’accatto favoriscono, forse, carriere e fanno vendere più copie ai giornali. Non importa che offendano una regione, che provochino danni all’immagine con ovvie, inevitabili, conseguenze. Ogni volta che un fatto di cronaca ne dia lo spunto, un ben collaudato meccanismo si mette in moto. Falsità vengono spacciate per verità; senza che vi sia reazione, men che meno della politica inerte. La diceria dell’untore si propaga. Si alimenta così l’antico pregiudizio: il pregiudizio antimeridionale. È l’immagine lombrosiana del meridionale antropologicamente delinquente, mai del tutto accantonata, seppur non chiaramente evocata. È un sentimento ostile, che l’illustre meridionalista Ettore Ciccotti definì l’antisemitismo italiano, indirizzato non agli ebrei, ma agli abitanti del Sud. Quell’antisemitismo italiano – scrisse Ciccotti - “di cui alla loro volta Italiani del sud e Italiani del nord risentono poi l’ingiustizia e il danno, quando per effetto degli stessi metodi vedono all’estero riassunto il tipo dell’Italiano nelle forme dell’indole del bandito tradizionale, e ad ogni Italiano, quale esso che sia, affibbiata quella caratteristica”. Ecco, così come ogni gesto mafioso genera ripugnanza e sdegno agli onesti, altrettanto sdegno e ripugnanza dovrebbero suscitare coloro che, con modalità diverse, alimentano il pregiudizio, rinfocolano la diceria dell’untore, ripropongono il teorema secondo il quale ogni calabrese è potenzialmente mafioso o, altrimenti, colluso o omertoso. E, anche se non lo è non importa, spetta a lui l’onere di provarlo. Solo nel Sud, e particolarmente in Calabria, le responsabilità dei singoli, morali o penali che siano, vengono spacciate per responsabilità collettive.
*UniCz