Anime nere, il mio disagio al cinema

Anime nere, il mio disagio al cinema
animenerevenezia
 
di GIUSEPPE FIORENZA* -
Non so cos’è il disagio che mi assale quando incomincia il film. Dev’essere un presagio, non un disagio. Un presagio, tipo pregiudizio che si riferisce a fattori esterni all’opera filmica: il consenso incondizionato ricevuto a Venezia, le critiche totalmente positive di giornali, radio e televisioni.

Il disagio però è lì e viene fuori quando sento parlare il dialetto del reggino jonico. Allora mi dico che il disagio deve dipendere dalla scelta linguistica dell’autore, l’uso della dialetto sottotitolato come segno dell’isolamento della Calabria? Forse è questa la scelta stilistica: analizzare un microcosmo familiare con una parlata dura, che già di per sé rende difficile la comunicazione con l’esterno.

Man mano che il film va avanti, viene la conferma di ciò. Tutto è analizzato in funzione della famiglia. Non c’è il territorio, non c’è vita sociale, i paesi sono abbandonati, i luoghi deserti. Sembra quasi un palcoscenico vuoto in attesa della rappresentazione.

Ma il disagio non dipende da questo. Il dialetto mi suona familiare, è perfetto grazie alla consulenza dell’autore dal cui libro è tratto il film, è spietato e rende bene la chiusura di quel microcosmo. Provo a immaginare come sarebbe stato il film recitato in italiano, avrebbe sicuramente cambiato connotazione.

Allora, forse il disagio è dovuto al fastidio che mi danno i sottotitoli, è un disturbo solo visivo? Non so. Forse è dovuto ad un altro elemento extra filmico, cioè il sapere che Francesco Munzi non è calabrese e non potrà mai penetrare quella realtà? Ma no! Nella storia del cinema sono infiniti i capolavori di un artista estraneo alla realtà che rappresenta col film. Anzi, ci vuole uno sguardo intellettuale distaccato, sereno, pacato, dall’esterno.

Ecco, forse il mio disagio è dovuto allo sguardo esterno del regista? Ci sono molte panoramiche dall’alto, poi il microcosmo entra in conflitto, esplode, si ripiega su se stesso. A quel punto, il disagio diventa malessere, perché il colpo di scena finale, chiude il racconto, ma apre un altro dubbio, dato che l’autore con ciò propone una soluzione, come il cinema non dovrebbe fare, e mette in crisi l’intera struttura narrativa. O forse no, forse era d’obbligo, perché il microcosmo non poteva che disgregarsi così. D’altronde il film non mostra i mali che hanno prodotto quel microcosmo: l’abbandono, il sottosviluppo, l’emigrazione, la decadenza politica. E’ perciò conseguenziale quella scelta, ma il male non è la famiglia o meglio quel tipo di famiglia, contro cui si scaglia la ragione dell’autore.

E’ vero che essa è la base dei cartelli criminali che prosperano dentro e fuori la Calabria, ma è fondamentale sapere che quel microcosmo e il malessere è dovuto al sottosviluppo economico e alla disgregazione territoriale e sociale. A meno di non voler rievocare lombrosiane memorie e dire che i calabresi sono così per natura!

Il film è bellissimo e disperato, un dramma greco opprimente e necessario che mette in scena personaggi di un altro tempo. La scelta linguistica era una scommessa ma ha pagato perché era in linea con la scelta stilistica. Il microcosmo rappresentato respinge come il dialetto ostico e impenetrabile, duro e incomprensibile.

Un film che ci voleva, che racconta per la prima volta quella terra senza veli mediatici o intermediari giornalistici. Gli attori sono maschere, bravissimi nella staticità atemporale dei propri personaggi e non ridono mai, se non nell’attesa di un lauto pranzo a base di carne di capra, anch’esso feticcio atemporale di una cultura contadina fantasma.

*scrittore calabrese emigrato in Piemonte