di GIUSEPPE GANGEMI* - Papa Francesco sottolinea che gli strumenti attraverso cui imprenditori e politici realizzano l’ingiusto impoverimento (quello che è superiore alle possibilità che offre la tecnologia di un dato tempo) sono due:
1) le pratiche economiche che creano squilibri esagerati tra poveri e ricchi (attraverso gli alti profitti e gli altissimi stipendi); 2) la disonestà dei politici che si manifesta in più campi: speculazione finanziaria e immobiliare (tutto ciò che produce reddito senza creare lavoro o essere frutto di lavoro socialmente utile), aumento a dismisura del costo di un’opera pubblica o di un servizio, etc.
Francesco I affronta, e giustamente, il problema dal punto di vista del peccato. Sostiene che quegli strumenti di impoverimento si configurano come peccati. Tutti e due sono furti di un particolare bene che si chiama bene pubblico, bene che l’etica (su cui ogni religione si deve fondare) richiede che sia distribuito equamente e non sia trattenuto da chi ha più potere economico o politico. Se tutti e due sono furti, vi è all’interno di loro, un ulteriore e più grave peccato: la corruzione. Questa è concentrata di più nel secondo punto dove i vantaggi e le responsabilità di attori pubblici e privati si equivalgono e lo scambio è più o meno uguale.
Secondo Francesco il peccato del ladro è perdonabile (e infatti Gesù perdona il buon ladrone, sul Golgota insieme a lui, quello che riconosce di meritare il supplizio, e vede in Gesù uno che non lo merita). Invece, la corruzione è un peccato imperdonabile perché produce sistema, finalizzato allo scopo di arricchire pochi e impoverire, anche moralmente, molti.
Vi è, però una terza categoria di attori che impoveriscono oltre il naturale. Questi attori non sono, per la religione, dei peccatori, non sono persone che un Papa biasimerebbe. Essi sono: il politico incapace (per esempio, incapace di gestire il bilancio di una città fino a mandarlo in un deficit pauroso che saranno i cittadini a dover pagare); il politico che si serve di disonesti, e non se ne accorge, anche se è personalmente onesto (nella migliore delle ipotesi questo è il caso dell’ex Sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Scopelliti, e della dirigente del Comune Orsola Fallara); infine, i politici che selezionano, sostengono e tengono in un ruolo una persona che, per incapacità, spreca le risorse pubbliche (esempio i tanti politici che affidano ospedali a direttori sanitari incapaci).
Ladri e corrotti sono, per dirla nei termini della cultura in cui è cresciuto politicamente Obama, nella dimensione della responsiveness: se individuati dalla giustizia umana, devono finire in galera. I politici della terza categoria non vanno in galera, ma ricadono in una forma di responsabilità politica che gli anglosassoni chiamano accountability. Se non conniventi e se non è provato che erano al corrente, sono comunque responsabili politicamente e si devono dimettere. Non solo dalla carica che occupavano quando sono avvenuti i fatti, ma anche dalle altre cariche in cui sono passati e persino da altre cariche cui potrebbero aspirare in futuro. Insomma, non dovrebbe più essere affidato loro nemmeno la gestione di un parcheggio comunale.
Perché? Per due motivi: 1) quando il bene è collettivo, l’incapacità è altrettanto esecrabile della disonestà e siccome comunque da questa incapacità qualcuno guadagna e la collettività ci rimette, costui ha comunque procurato un danno che non può risarcire; 2) se si accetta la difesa del politico che dice che non sapeva si mette la magistratura nella necessità di dover decidere se superare o meno la linea del massimo garantismo possibile. Questa linea è quella della prova certa che il denaro sottratto è andato in parte o del tutto a vantaggio del politico. Nessun problema quando la prova c’è. Il problema sorge quando la prova non c’è. La magistratura è tentata a elaborare un sillogismo o un teorema e questo crea un problema più grosso perché genera conflitti tra politici e magistrati, che si riverberano negativamente sui cittadini.
La democrazia ci rimette comunque quando questi conflitti si manifestano con troppa frequenza e crea discredito non solo nei politici (anche quelli non incorsi nel problema), ma anche nei magistrati (anche quelli che non hanno trattato il caso). Perché la democrazia è sempre un problema di rappresentanza e fiducia: i cittadini devono potersi fidare dei loro rappresentanti.
Franck La Rue, relatore speciale ONU per la promozione e difesa della libera manifestazione del pensiero, segnala che la fiducia nei rappresentanti può essere aiutata da un Freedom of Information Act (FOIA) che, in Italia, quasi unico tra i Paesi democratici del mondo, non esiste (non essendo ancora sufficiente e rimanendo spesso inapplicata la legge 33/2013). Il FOIA presuppone che una decisione di un ente pubblico sia resa trasparente attraverso la pubblicità dell’iter che ha avuto, di chi la ha appoggiata, di chi la ha votata, di quali siano gli effetti concreti che ne derivano e a vantaggio di chi.
Il FOIA, approvato per primi dagli USA nel 1966, ha la funzione di permettere al pubblico di controllare una delibera ed, eventualmente, di segnalarne gli effetti perversi a chi ha firmato la stessa e di permettergli, se in tempo, di ritirarla. La funzione pratica del FOIA non è solo quella del controllo, ma anche quella di ridurre quanto più è possibile l’incidenza dell’accountability (con il FOIA operante in Italia, la dirigente Fallara non si sarebbe mai permessa di autoliquidarsi cifre così rilevanti; e se anche lo avesse fatto, l’allora Sindaco Scopelliti non avrebbe potuto restare a lungo senza esserne messo al corrente). E la magistratura, come è evidente, avrebbe un compito meno soggetto ai plausi o alle critiche politiche di parte.
*docente dipartimento scienza della politica UniPadova.