Quando massacravamo gli adorni - di ANTONIO CALABRÒ

Quando massacravamo gli adorni - di ANTONIO CALABRÒ

FP     di ANTONIO CALABRÒ - Terminato il prima quarto di Primavera inizia sopra le coste della Calabria meridionale il passaggio dei Falchi Pecchiaioli, splendidi rapaci che giungono

dalle loro mete lontane planando con ali da gigante e grazia d’angelo in cerca di un primo riposo dopo aver superato il mare.

Per decenni sono stati accolti dalla brava gente di Calabria a schioppettate e piombo caldo, da festosi comitati di benvenuto appostati su rifugi contesi sparsi per tutte le colline da Palmi a Capo d’Armi, sin quando una legge non ne ha proibito la caccia. Da allora lo sport si è trasferito in terra, e la caccia è quella che gli addetti alla sorveglianza danno ai bracconieri – che tali ormai sono diventati – in una continua rincorsa degna di film con Ridolini.

La tradizione è dura da rimuovere: negli anni passati era addirittura una gara, con l’elezione di un vincitore e di uno sconfitto, che ignobilmente assumeva un titolo poco onorevole. C’è chi ricorda con nostalgia quei giorni, quando in tutto il reggino gli spari si susseguivano incessanti, creando un’atmosfera western, quando i posti nei “passi” venivano contesi anche con risse e sfide, quando c’erano i più pazzi che si posteggiavano sullo stretto a bordo di barchette armati di spingarde calibro 12 per anticipare gli altri, quelli che facevano la fila sin dalla notte.

Ho parlato con uno di questi vecchi reduci, e mi sembrava di avere a che fare con Buffalo Bill; lo sguardo gli si accendeva d’entusiasmo al ricordo delle sue prede piumate dal becco d’acciaio, e in effetti era molto competente in materia: mi ha spiegato la differenza tra le varie tipologie di adorni, l’abitudine del rapace a nutrirsi di api (“pecchiaioli”, appunto), e mi ha inoltre sciorinato dati e statistiche per spiegare come la specie non sia affatto a rischio, e come questa tradizione non minacci affatto l’ecosistema anzi faccia parte di una logica darwiniana e quindi aiuti l’evoluzione. Senza convincermi più di tanto, devo confessare.

Ho cercato di stanarlo, insistendo sulle vere motivazioni che lo inducevano (in passato: giura che è da anni che non si permette più di sparare agli adorni, ed io gli credo) a questa terribile caccia, e ho trovato un pozzo nero d’indecisione e di scuse balbettate. Io cercavo l’epica del confronto uomo – natura, magari sulle orme di Ernest Hemingway, lui mi raccontava delle famiglie festanti che partecipavano agli avvistamenti. Cercavo la descrizione della tensione emotiva che può sviluppare la caccia, cercavo il sentimento senza tempo di volontà di potenza, cercavo un senso storico di ricongiunzione con gli avi; invece niente. Il mio amico ex-sparatore di adorni ha saputo solo farfugliare “era bello perché lo facevano tutti, e quando ne prendevi uno ti sentivi orgoglioso”. In pratica, era inconsapevole di ciò che faceva.

La caccia agli adorni è, come spesso in Calabria accade, figlia di ferite ataviche : è un esorcismo teso a scongiurare i pericoli che vengono dal mare. Questi volatili pagano il prezzo dei pirati arabi e turchi, che piombavano come rapaci sui nostri paesi costieri, come tanti “Ceddazzi” a caccia di ricchezze e donne ( il verbo dialettale “ceddhiare”, chi significa importunare le donne, deriva etimologicamente dal soprannome dato ai feroci predoni, e gli effetti dei loro innumerevoli stupri sono presenti geneticamente tra noi meridionali) ; un esorcismo, un rito apotropaico, un gesto che affonda le sue radici nella storia e nella propensione, tutta calabrese, al difendersi da soli.

Sparare i falchi per allontanare il pericolo dei “Ceddazzi”, e scongiurare il rischio della perdita dell’onore. Vincolato alla virtù femminile, alla fedeltà coniugale e alla virilità guerresca. Per cui chi non uccideva neanche un Adorno veniva proclamato (scherzosamente, ma con conseguenza a volte tragiche) “Re dei cornuti”.

Voglio specificare che pur essendo un buon degustatore di volatili e pennuti, di cinghiali e ogni squisitezza del regno animale, non sono capace di usare armi da fuoco per una mia ritrosia caratteriale e culturale; nel caso dei falchi parteggio per loro esclusivamente per un mio bieco egoismo personale.

Amo il loro planare nel cielo, adoro l’ultimo paragrafo di Moby Dick, e quando osservo un adorno mi sento partecipe di qualcosa di più grande della mia realtà, quindi non lo ucciderei mai. Condanno questa abitudine per la sua radicata appartenenza ad un mondo rupestre che non ha nulla di bello, e perché condanno ogni crudeltà inutile, primitiva e senza senso.

Alla Calabria, da decenni, basterebbe una piuma per volare. E chissà che questa piuma non sia proprio di Falco Pecchiaiolo, re del cielo e dei venti, romantico animale, crudele e coraggioso, proprio come noi.