Il suo pentimento si verifica a distanza di quasi 25 anni dalla cattura e dopo una lunghissima detenzione al 41 bis, quando il suo clan è già da tempo in gran parte smantellato e a pochi giorni di distanza del trentesimo anniversario dell’uccisione di don Peppino Diana all’interno della Chiesa di Casal di Principe. In ogni caso, egli non ha seguito la strada di un Totò Riina, di un Bernardo Provenzano, di un Raffaele Cutolo, di un Girolamo Piromalli, cioè di alcuni boss (del suo stesso peso all’interno della propria organizzazione) che non si sono mai pentiti. Sicuramente avrà tante cose da raccontare agli inquirenti, un pezzo di storia del nostro paese potrà venire fuori dalle sue parole, a partire da ciò che veramente successe durante la crisi di rifiuti che mise in ginocchio Napoli e la Campania nei primi anni del 2000 e che si risolse improvvisamente appena Berlusconi ritornò al governo nel 2008.
Sandokan è una delle più riusciti interpreti del capitalismo criminale nel nostro paese. Egli è la dimostrazione che i mafiosi sono assassini e al tempo stesso uomini d’affari. Ecco perché va sempre ricordato che Cosa nostra è solo una forma originale di mafia ma non quella esclusiva. Infatti, sia alcuni clan di camorra sia altri di ‘ndrangheta hanno dato alla violenza un indirizzo imprenditoriale più marcato, come già era avvenuto in Sicilia nei decenni precedenti. Schiavone è stato uno dei principali protagonisti di questa svolta, testimoniando nei fatti che tra illegalità, violenza e mercato non è mai esistita una contrapposizione totale, ma al contrario una forte interconnessione: si può fare economia anche fuori o addirittura contro la legge. Il cuore delle attività mafiose (anche se illegali) non è l’omicidio ma il profitto. Il profitto è solo il fine, la violenza il mezzo.
È come se i mafiosi fossero imprenditori di due mondi, quello illegale e quello legale. La loro abilità consiste nello spostarsi dall’uno all’altro campo senza grandi difficoltà e senza mai abbandonare l’uno per l’altro. I suoi affari andavano dal campo delle produzioni agricole a quello dell’edilizia post-terremoto del 1980, dalla costruzione di tante infrastrutture di collegamento (a partire dalla realizzazione dell’alta velocità Napoli-Roma), a quello dei rifiuti, trasformando le campagne tra Caserta e Napoli nella più altra concentrazione di rifiuti tossici d’Italia, smaltiti a basso prezzo per molte industrie del Centro-Nord. Il clan dei casalesi dette addirittura vita a due consorzi per la produzione di cemento che in regime di monopolio rifornivano tutte le ditte del settore. E alcuni dei suoi referenti divennero i distributori monopolisti dei prodotti Cirio e Parmalat. Per decenni Caserta e il suo territorio sono stati una zona franca per i criminali. La camorra casalese ha avuto il vantaggio di un ventennio prima di diventare un problema serio per gli apparati repressivi dello Stato. Ha scritto a proposito Federico Cafiero de Raho: “Quando nel 1993 iniziai le indagini sui casalesi, per prima cosa telefonai ai comandanti delle varie stazioni dei carabinieri della zona. Nessuno però ammise di sapere che nel casertano c’era la camorra”.
Un prefetto di Caserta ebbe a dichiarare il 30 luglio 1997 (quando già la camorra controllava ampiamente il settore dei rifiuti) che “per quanto riguarda le presenze malavitose nel settore dei rifiuti solidi siamo ancora ai si dice. Riscontri obiettivi sulla presenza della criminalità organizzata non ne abbiamo”.
Ciò a dimostrazione che il successo della criminalità organizzata è sempre la parte evidente della disorganizzazione dello Stato e dei suoi apparati o della aperta connivenza di ambienti non mafiosi. Se Sandokan raccontasse quali consensi ha avuto nel mondo delle imprese legali, darebbe un grande
contributo alla comprensione del funzionamento reale di settori importanti della nostra economia.